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Etiopia, il silenzio complice di Facebook nella diffusione dell’odio etnico contro Tigray e Oromo

Il codice di condotta che regolamenta l’utilizzo della famosa piattaforma social Facebook è molto dettagliato nel proibire la diffusione di odio etnico che viene suddiviso in tre livelli di gravità.

Il primo riguarda contenuti rivolti a persone o a un gruppo di persone, che contengono dichiarazioni di incitazione o sostegno alla violenza, discorsi o immagini disumanizzanti. Il secondo livello riguarda contenuti relativa alla affermazione di inferiorità culturale, morale, fisica, intellettuale di persone o di un gruppo di persone. Sono proibiti anche i messaggi che contengono espressioni di disprezzo, intolleranza antisemitica, sessuofobica, xenofoba, omofoba, razzista, islamofoba. Espressioni di odio, rifiuto e disgusto verso un determinato gruppo di persone.

Il terzo e ultimo livello riguarda contenuti rivolti a persone o a gruppi di persone che invitano esplicitamente alla loro segregazione, esclusione politica, economica, sociale, dichiarazioni di minaccia o auspici a sostegno di azioni violente contro di esse, incitamento alla violenza e al genocidio.

Facebook avverte i propri utenti che agirà in piena autonomia nella rimozione dei spot contenenti messaggi rientranti in questi 3 livelli e alla rimozione della pagina utente qualora i messaggi di odio etnico e incitamento alla violenza siano ripetuti e configuranti una chiara strategia di comunicazione razziale e genocidaria.

Queste regole non sembrano essere applicate nella guerra civile etiope, dove la propaganda e l’uso dei social per trasmettere messaggi di odio e incitamenti alla violenza e al genocidio, sono parte integrante della politica di annientamento della etnia del Tigray e nella politica di sottomissione con la forza della etnia Oromo (il primo gruppo etnico in Etiopia), ideata e promossa dal dittatore eritreo Isaias Afwerki e applicata diligentemente dai suoi faccendieri etiopi: il Premier etiope Abiy Ahmed Ali e la dirigenza fascista Amhara.

I regimi di Asmara e Addis Ababa hanno priorizzato la comunicazione sui social trasformandola in una arma di guerra. Vari profili falsi sono stati creati così come coordinamenti di propaganda sui social. I più attivi sono: #EthiopiaPrevail, gestito direttamente da esperti in Asmara e #NoMore gestito da un gruppo di imprenditori Amhara della diaspora americana sotto lauti compensi da parte del regime fascista di Addis Ababa.

L’esempio più eclatante di questa politica comunicativa avvenne alla fine di ottobre. Dejene Assefa, un estremista di Addis Abeba noto per le sue apparizioni alla televisione di stato in Etiopia, ha postato un messaggio ai suoi oltre 120.000 follower su Facebook. Il post esortava i suoi compatrioti a insorgere in tutto il paese e ad assassinare membri del gruppo etnico tigrino. “La guerra è contro quelli con cui sei cresciuto, il tuo vicino”, ha scritto in amarico. “Se riesci a liberare la tua foresta da queste spine… la vittoria sarà tua.” Il messaggio è stato condiviso quasi 900 volte e ha attirato oltre 2.000 reazioni. Molte delle risposte hanno fatto eco alla chiamata alla violenza e hanno promesso di ascoltare il consiglio di Dejene.

“Il contenuto è tra i più terrificanti che abbia mai visto da nessuna parte”, ha commentato Timnit Gebru, ex scienziato di dati di Google e principale esperto di pregiudizi nell’intelligenza artificiale, che parla correntemente l’amarico. “Era letteralmente un appello chiaro e urgente al genocidio. Questo ricorda quello che è stato visto su Radio Mille Collines in Ruanda”. La Radio Television Libre des Mille Collines, una stazione creata dagli estremisti hutu in Ruanda, trasmetteva appelli alla violenza che hanno contribuito a innescare il genocidio nel paese nel 1994.

Nonostante la palese incitazione al genocidio contro l’etnia Tegaru il post non è mai stato rimosso o oscurato da Facebook. Il post di Dejene Assefa è solo la punta dell’iceberg. Dinnanzi alla mancanza di reazione, gli esperti di comunicazione dei regimi etiope ed eritreo hanno concentrato i loro sforzi di propaganda genocidaria sulla piattaforma Facebook anche a seguito della efficace azione repressiva adottata da Twitter che ha disattivato diversi account falsi e altri che diffondevano odio etnico, oltre ad impedire la diffusione di hashtag di gruppi specializzati in disinformazione e propaganda etnica come #EthiopiaPrevail e #NoMore.

La direzione di Facebook riconosce i rischi della disinformazione dell’incitamento all’odio provenienti dalla Etiopia o dalla diaspora etiope ma afferma di riscontrare grosse difficoltà sul controllo dei contenuti pericolosi sopratutto quelli scritti in lingua amarica. Mark Zuckerberg riconosce che la capacità di moderazione è insufficiente a causa delle barriere linguistiche che impediscono al servizio di moderazione Facebook di individuare i messaggi pericolosi o agli utenti di segnalarli.

Per cercare di colmare il divario nella sua comprensione dei messaggi genocidari di matrice etiope ed eritrea, l’azienda ha proposto di utilizzare “modelli basati sulla rete”, un meccanismo opaco e sperimentale. Vari esperti hanno giudicato questa decisione un semplice e vergognoso escamotage, affermando che basterebbe un semplice programma di traduzione automatica della lingua amarica o programmare la Intelligenza Artificiale addetta al controllo dei contenuti con le parole chiavi della lingua amarica solitamente utilizzate nei messaggi di odio etnico e incitamento al genocidio.

A un anno e un mese dallo scoppio della guerra civile in Etiopia, Facebook non ha ancora risolto il problema. Al contrario ora cerca di ignorarlo e di non prendere sul serio le denunce delle associazioni internazionali per la difesa dei diritti umani.

Qui si tratta non di controllare qualche isolato estremista che agisce in rete. Si tratta di bloccare network criminali di propaganda genocidaria ed etnica costituiti da migliaia di utenti e progettati per creare parole d’ordine e messaggi efficaci per far agire le persone contro i due principali gruppi etnici: quelli del Tigray e della Oromia.

I gruppi per i diritti umani hanno documentato atrocità da entrambe le parti, ma un rapporto congiunto dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha rilevato abusi commessi dalle forze governative, inclusi massacri di etnia tigrina e stupri armati di ciò che potrebbe ammontare a migliaia di donne. Il governo degli Stati Uniti sta valutando di dichiarare la campagna un genocidio.

In Etiopia, dove i giornalisti sono stati incarcerati e i media statali censurano tutte le notizie di abusi da parte delle forze statali e alleate, la risposta del governo è stata sostenuta da un esercito di attivisti e personalità dei social media, che producono il consenso per la condotta delle sue forze. Molti hanno un grande seguito su Facebook, che ha più di 6 milioni di utenti nel paese.

La polizia politica NISS e quella telematica NSA (creata nel 2008 dallo stesso Abiy Ahmed Ali) utilizzano Facebook anche per individuare giornalisti, attivisti per i diritti umani e chiunque sia critico nei confronti del regime, etichettandoli come “traditori” e cercando di individuare le loro identità per attivare azioni punitive contro le loro persone o rappresaglie contro parenti, amici e persone a loro care.

Il linguaggio disumanizzante rivolto alle minoranze etniche creato dagli esperti di comunicazione Amhara ed Eritrei è entrato nel uso corrente della lingua Amhara divenendo il pilastro dei messaggi diffusi tramite Facebook. La piattaforma social è utilizzata senza ritegno dallo stesso Premio Nobel per la Pace. Lo scorso luglio, dinnanzi alla offensiva del TPLF e del OLA, un frustrato Abiy Ahmeda ha pubblicato una serie di spot su Facebook giurando di schiacciare il “cancro tigrino” definendoli “topi”, “erbacce” “virus”. Facebook non ha reagito.

Una inerzia incomprensibile visto che un anno aveva fatto scalpore la decisione di Facebook di oscurare un post del Presidente americano Donald Trump che istigava odio razziale utilizzando immagini grafiche che richiamavano la simbologia nazista. Nel gennaio 2021 Facebook è andato oltre, annunciando la sospensione del profilo del ex presidente americano escludendolo anche da Instagram a causa dei commenti favorevoli pubblicati da Trump sull’assalto a Capitol Hill.

Se comparati con i post del Premier etiope, quelli di Trump appaiono innocenti pensieri di un mitomane. Eppure nemmeno il più blando invito alla moderazione è stato inviato da Facebook al Premier etiope. Il regime fascista Amhara ha interpretato questa inerzia come una tacita complicità, concentrando i suoi sforzi di comunicazione sulla piattaforma Facebook, al fine di compensare le restrizioni e le difficoltà riscontrate su Twitter.

La comunità internazionale, a distanza di un anno dall’inizio di questo sperimento comunicativo utilizzando Facebook, concorda che i messaggi veicolati non solo solo un riflesso dell’ambiente politico dell’Etiopia ma che abbiano contribuito all’aggravarsi della violenza etnica. In settembre l’opinione pubblica mondiale è venuta a conoscenza del piano genocidario contro il Tigray, delle pulizie etniche ad Addis Ababa contro Tegaru e Oromo, dell’esistenza di almeno 4 lager di internamento per Tegaru modellati sull’esempio nazista. Dei veri e propri campi di sterminio per “estirpare le erbacce”. Nonostante queste evidenze la direzione Facebook continua a non intervenire seriamente per fermare la campagna di promozione al genocidio sulla sua piattaforma social.

In novembre Zecharias Zelalem, giornalista freelance etiope che collabora con Al-Jazeera, Quartz, Addis Standard e Open Democracy e Peter Guest, editore aziendale della piattaforma informativa Rest of World, hanno scoperto l’esistenza di due gruppi di disinformazione delle diaspora etiope. Il primo in Egitto, affiliato alla milizia paramilitare Amhara: FANO e il secondo in Sudan, affiliato a un gruppo terroristico Oromo che invoca la violenza contro lo stato federale e contro l’etnia Amhara. Gruppo non riconosciuto dalla comunità Oromo e dal Oromo Liberation Army di cui si sospetta che sia una creazione del dittatore eritreo Isaias Afwerki utilizzato per la guerra di propaganda militare.

Entrambi i gruppi concentrati sulla diffusione di odio razziale e incitamento al genocidio non sono stati repressi da Facebook. Le loro attività sono pressoché terminate solo dopo l’intervento della polizia cibernetica egiziana e sudanese.

“I contenuti pubblicati su Facebook hanno avuto un impatto reale sui civili in Etiopia”, spiega  Yohannes Ayalew, ex docente di diritto alla Bahir Dar University in Etiopia, ora candidato al dottorato presso la Monash University in Australia. Ha indicato  come esempio la campagna di vendetta fatta su Facebook nel luglio 2020 a seguito dell’assassinio di stato dell’attivista e cantante oromo Hachalu Hundessa. Un campagna che ha generato un’ondata di brutale violenza tra gli Oromo in cui centinaia di civili di etnia Amhara e membri di altre minoranze nella regione della Oromia sono stati assassinati. L’opposizione politica Oromo e il Oromo Liberation Army ha riscontrato forti difficoltà a fermare questa ondata  di violenze promosse tramite Facebook.

Durante la testimonianza data davanti a una sottocommissione del senato degli Stati Uniti lo scorso ottobre, Frances Haugen, informatore di Facebook, ha affermato che i fallimenti dell’azienda in Etiopia potrebbero eguagliare quelli in Myanmar, dove i funzionari delle Nazioni Unite hanno affermato che Facebook ha svolto un ruolo di primo piano nel facilitare la violenza genocida del regime militare.

I documenti interni mostrano le ragioni del fallimento della società. Facebook sa di non avere una copertura sufficiente delle lingue locali per identificare attivamente l’incitamento all’odio o gli appelli alla violenza. Ha anche raccolto un basso numero di segnalazioni dagli utenti per aiutarlo a identificare i contenuti problematici, che ha attribuito all’alfabetizzazione digitale, ma le sue interfacce di segnalazione restano confuse per gli utenti etiopi e la mancanza di supporto di traduzione della lingua amarica persiste a distanza di un anno dall’avvio di queste campagne di violenza e odio etnico.  

Queste carenze erano ben conosciute fin dal giugno 2020 quando i dipendenti di Facebbok che esaminavano i “segnali” della piattaforma – i dati, raccolti da utenti e partner – hanno affermato di aver trovato “lacune significative” nei paesi più a rischio, in particolare in Myanmar ed Etiopia. I dipendenti dimostrarono che il sistema di controllo e moderazione di Facebook era completamente inadeguato.

Un rapporto interno di Facebook dell’ottobre 2021 rivela che l’Etiopia non era inserita nei paesi a rischio di “livello 1” ma godeva di un valore anomalo con il tasso di monitoraggio più basso rispetto ad altri paesi noti per promuovere odio etnico, messaggi di violenza o supporto al terrorismo internazionale. Il livello 1 indicata i paesi dove i governi promuovono attivamente e consapevolmente campagne di disinformazione e incoraggiamento alla violenza etnica e politica.

Questa denuncia smantella la difesa di Facebook incentrata sulle difficoltà linguistiche e di traduzione. Qui si parla di una precisa politica aziendale tesa a proteggere il regime etiope e i suoi associati eritrei permettendo loro di continuare a utilizzare Facebook per veicolare i loro pericolosissimi messaggi di violenza.

Facebook, ora nel mirino delle critiche a livello mondiale, ha proposto di utilizzare un approccio diverso per affrontare il problema: la moderazione basata sulla rete. Anziché utilizzare parole o frasi specifiche per identificare direttamente l’incitamento all’odio o la disinformazione, la moderazione sulla rete si basa sull’identificazione di modelli di comportamento coerenti con l’attività dannosa.

“Tuttavia la moderazione basata sulla rete è una forma particolarmente opaca di moderazione dei contenuti, su cui la società ha rilasciato pochi dettagli. Questa forma di moderazione si basa sulle ricerche e sui dati della piattaforma, che raramente condivide con ricercatori esterni. I documenti pubblicati come parte dei Facebook Papers mostrano che questo approccio è ancora sperimentale e che non è chiaro se i suoi modelli funzionino nel contesto dell’incitamento all’odio, anche negli Stati Uniti, dove ha sede e dove ha il volume maggiore di dati”, spiega Evelyn Douek, docente presso la Harvard Law School ed esperta di moderazione sui social media

Documenti interni di Facebook denunciano l’azienda di scarsa volontà a comprendere il network comunicativo di diffusione dell’odio etnico sia quelli a favore dei suprematisti bianchi negli Stati Uniti che quelli a favore dei brutali regimi in Etiopia e Myanmar. Lo stesso portavoce di META, la holding recentemente ribattezzata proprietaria di Facebook,  ha dichiarato lo scorso novembre che l’azienda non ha ancora utilizzato il nuovo protocollo di moderazione basata sulla rete per interrompere i network nocivi in Etiopia. Oltre il danno la beffa…

Anche se tale protocollo entrasse in funzione e improbabile che funzioni. “Non puoi entrare in un mercato senza la comprensione della lingua o la comprensione contestuale o l’esperienza politica e aspettarti che questo tipo di moderazione sia sufficiente o prevenga danni. Semplicemente non è adeguato.” Afferma la Douek.

Fughe di notizie dall’interno rivelano che Facebbok ha riscontrato serie problematiche di diffusione dell’odio etnico contro il Tigray e l’Oromia, promosse dal regime, già nel 2019. Un dipendente Facebook ha rivelato che la pericolosità dei messaggi di odio etnico e la loro rapida moltiplicazione sul social registrati dal 2019 in poi, sembrano essere di nessuna preoccupazione per Facebook, META e Mark Zuckerberg.

Crolla qui la difesa di Zuckerberg tentata nel settembre 2021 che la sua società non era pronta alla “improvvisa” ondata di odio e promozione della violenza originata dai regimi di Etiopia ed Eritrea. Cade  nel vuoto anche la promessa di porre rimedio.

Al contrario si assiste ad un supporto indiretto a queste campagne di puro odio etnico e incitamento al genocidio. L’esempio più eclatante si è verificato lo scorso settembre quando Facebook ha incoraggiato la diffusione di un post su un presunto attentato terroristico compiuto da un’altra minoranza etnica etiope: i Qemant che aveva provocato la morte di decine di civili Amhara. La notizia era palesemente falsa e Facebook non è intervenuto dinnanzi alle segnalazioni di contenuto non appropriato e di fakenews inviate da centinaia di utenti.

Il giorno dopo la pubblicazione del posto, un villaggio Qemant fu attaccato dalle milizie FANO, saccheggiato e incendiato. Questa volta le vittime erano reali. La fakenews che incolpava i Qemant di massacri di civili era servita solo per giustificare il crimine di guerra compiuto contro questa minoranza etnica che si oppone al dominio Amhara sul paese.

I Qemant sono un piccolo gruppo etnico dell’Etiopia nord occidentale, che vivono a Gondar, nella regione della Amhara. Sono imparentati con il popolo etiope degli Agaw. i Qemant, sono stati attaccati diverse volte dalle forze governative e dalle milizie alleate. Migliaia di civili Qemant hanno lasciato le loro case per rifugiarsi nel vicino Sudan.

I messaggi di odio etnico trasmessi su Facebook stanno subendo una pericolosa mutazione. Da messaggi tesi a rafforzare i sentimenti di odio verso i concittadini del Tigray e della Oromia, ora Facebook viene utilizzato dai servizi segreti Amhara ed eritreo, per diffondere condanne a morte e coordinare i pogrom e le pulizie etniche.  

Ad agosto il commentatore dei media statali etiope, Miktar Oussman, con oltre 210.000 follower su Facebook ha fatto una serie di nomi di docenti universitari di origine tigrina da eliminare. Due mesi dopo due dei docenti menzionati nella lista, furono uccisi. Il loro assassinio fu celebrato da Muktar su Facebook con la terrificante frase: “Due in meno”.

Il direttore delle politiche pubbliche per l’Oriente e il Corno d’Africa di META: Mercy Ndegwa, lo scorso settembre ha cercato di affrontare le crescenti critiche contro Facebbok e i sospetti di connivenza e omertà a favore dei regimi etiope ed eritreo, affermando che si stanno rafforzando gli sforzi per la sicurezza comunicativa in Etiopia, consapevole che i rischi sul campo che i messaggi si trasformino in azioni concrete sono in questo momento molto alti. Ndegwa ha rassicurato le decine di migliaia di utenti scandalizzati da questa passività e l’opinione pubblica internazionale che META e Facebook intraprenderanno efficaci azioni per soddisfare le esigenze di protezione di diritti umani.

Le rassicurazioni di  Ndegwa sono risultate specchietti per le allodole. A ottobre, un ricercatore universitario etiope ha segnalato una serie di post governativi incitanti al genocidio pubblicati su Twitter e Facebook chiedendo la loro rimozione. Mentre Twitter è intervenuto immediatamente, Facebook ha inviato la seguente comunicazione al proprietari dei profili coinvolti nell’operazione. “Il tuo post è stato segnalato come offensivo e in violazione del codice di condotta interno. Dopo attenta analisi informiamo che il tuo post non viola gli standard della Community di Facebook”.  Solo in un secondo tempo META è intervenuta per cancellare i post incriminati.

Purtroppo erano stati visti da milioni di persone e avevano contabilizzato oltre 50.000 condivisioni. I post hanno contribuito alla collaborazione tra cittadini Amhara particolarmente estremisti e la polizia politica e le truppe eritree nella caccia al Tigrino scatenatasi ad Addis Ababa. Hanno inoltre incoraggiato qualche migliaia di disoccupati e reietti della società ad arruolarsi nelle milizie della morte inventate da Abiy per difendere la capitale pudicamente denominate: “Comitati urbani di autodifesa popolare”.

All’inizio di novembre, Facebook ha rimosso per la prima volta un post del Premier Abiy Ahmed,  che invitava i cittadini a sollevarsi e “seppellire” i ribelli. Il post è stato giudicato di aver violato le regole di Facebook sull’incitamento alla violenza. È stato un intervento importante, hanno detto gli analisti, ma il giorno dopo che il post di Abiy è stato rimosso, il sindaco di Addis Abeba: Adanech Abiebie è andato su Facebook per applaudire i volontari che conducono i retaggi e le violenze di quartiere in tutta la città, aggiungendo: “Senza alcun dubbio gli uomini la giunta [ un termine usato per riferirsi ai ribelli del Tigray] saranno sepolti ovunque vadano!” Questo post non è mai stato rimosso dalla piattaforma.

Ho la netta sensazione che Facebook stia facendo un servizio di moderazione solo a parole a causa delle critiche bomba che giungono da tutte le parti. In realtà Facebook continua nella sua incomprensibile politica di omertà e complicità a favore del governo etiope” ha affermato il professore Yohannes Ayalew, della Monash Unversity, una delle più prestigiose università dell’Australia.  

Agli inizi di dicembre Facebook ha dichiarato che l’Etiopia è stata definita un luogo temporaneo ad alto rischio di diffusione di odio etnico, promettendo di rimuovere tutti i post che promuovono violenza e disinformazione. META è passata subito agli atti concreti. Ha aggiunto il Oromo Liberation Army a una lista nera interna bloccando i post che contengono qualsiasi riferimento al OLA.

Stranamente però non ha ancora preso serie azioni contro i network criminali di comunicazione genocidaria gestiti dai servizi segreti eritrei ed etiopi, né attuato moderazioni o limitazioni nei messaggi etnici e violenti pubblicati sugli account ufficiali del governo etiope o su quelli privati dei suoi membri, quadri del Prosperity Party e uomini e donne Amhara del mondo dello spettacolo. Una definitiva presa di posizione da parte di Zuckerberg che chiarisce il suo orientamento politico nella guerra civile etiope.

Facebook si appella al suo ruolo di neutralità nell’offerta gratuita del suo servizio social. Evidentemente non ha mai udito le parole del Arcivescovo sudafricano Desmond Tutu scomparso durante il Santo Natale: “Se sei neutrale in situazioni di ingiustizia, hai scelto la parte dell’oppressore”.

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