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Covid-19, l’impegno di Cospe nel Regno di Eswatini, ex Swaziland

Il Regno di Eswatini, ex Swaziland, è un piccolo paese stretto tra il Sudafrica e il Mozambico. Ha una popolazione di 1,4 milioni di persone, due terzi dei quali vivono sotto la soglia di povertà. Si tratta dell’ultima monarchia assoluta del continente africano, governata attualmente da Re Mswati III. Dal 2005 è in vigore una carta costituzionale che contiene norme fondamentali relative ai diritti umani e alle libertà fondamentali, ma nel paese vigono ancora norme consuetudinarie legate a tradizioni e costumi sociali che spesso prevalgono anche sulle norme di diritto.
Da metà marzo è stato decretato lo Stato di Emergenza nazionale e dal 27 marzo scorso anche nel regno di Eswatini è vige un “partial lockdown” con uffici chiusi e spostamenti molto limitati come misura di contenimento per la diffusione del Covid- 19
Le già forti limitazioni alla libertà di manifestazione (difficoltà ad ottenere permessi per marce, proteste, etc) sono adesso totalmente soppresse, senza che esista una possibilità alternativa di far circolare il dissenso o di esprimere preoccupazioni circa l’operato del governo, in un panorama mediatico quasi monopolitiscamente nelle mani del re o del governo.
Le informazioni sanitarie di tipo preventivo, medico e sanitario sono circolate prima in maniera folle e delirante sui social media, poi in maniera più lucida trasmettendo messaggi ufficiali, delle Nazioni Unite, di ONG e associazioni mediche. Solo successivamente, con un certo ritardo, sono arrivati comunicati stampa e poi decreti governativi che hanno iniziato rappresentato con correttezza la situazione medica che ad oggi conta 9 casi di persone infettate, di cui 3 ancora ricoverati, 3 già dimessi e 3 seguiti in isolamento domiciliare. 398 sono le persone di recente in ingresso nel paese provenienti da paesi ad alto rischio, di cui 297 sono stati posti sotto monitoraggio. 112 campioni sono stati prelevati e in attesa di risultati.
Il paese ha deciso il lockdown parziale, ossia la chiusura di scuole e uffici, limitazioni negli spostamenti, ma mantenimento di industrie e servizi essenziali (tra cui i negozi di alcolici…) ma ad oggi quello su cui non c’è informazione governativa è quanto le strutture sanitarie locali siano capaci di una risposta per il trattamento dei casi che lo richiederanno. Va qui considerato che è il paese col più alto tasso al mondo di HIV e tassi elevati di TBC e quindi una popolazione vulnerabile e immunodepressa.
“Per settimane non ci sono state possibilità di effettuare i test in questo paese, i test venivano inviati in Sud Africa e richiedevano giorni prima di ottenere la risposta” afferma Federica Masi, responsabile per l’Africa Australe dell’ONG italiana COSPE.
Adesso il paese si sta dotando di test da effettuare su chiunque abbia viaggiato nelle ultime settimane ed ha messo in moto una risposta più coordinata ma la preoccupazione rimane sulla capacità delle strutture sanitarie di trattare i casi positivi e le complicazioni, con soli 10 posti in terapia intensiva in tutto il paese e un unico ospedale attrezzato per l’isolamento dei pazienti e il Sud Africa che ha poi chiuso la maggior parte delle frontiere in ingresso.
Il 17 marzo c’è stata una protesta dell’associazione infermiere che ha dichiarato che non tratterà e curerà nessun caso di CODV 19 per la totale mancanza di protezioni sanitarie adeguate (mascherine, guanti, alcool, soluzioni igienizzanti ecc) Il 16 marzo tutti coloro che si sono presentati nell’ospedale governativo della capitale sono stati rimandati a casa dalle infermiere senza poter accedere ad alcun trattamento e la situazione di caos è perdurata anche nelle due settimane successive con 4 ospedali governativi (Mankayane, Mkhuzeni, Raleigh Fitkin Memorial and Mbabane Government Hospital) che hanno interrotto ogni funzione.
La richiesta è che il Re e il Governo dotino le strutture sanitarie con misure di prevenzione del contagio per gli operatori sanitari e per gli altri pazienti e che il personale sanitario sia formato adeguatamente per gestire l’emergenza.
Intanto COSPE, come altre ONG internazionali presenti nel paese, ha deciso di usare i progetti che aveva in corso, per dare informazioni sul virus e sulle norme sanitarie soprattutto nelle aree rurali dove con più difficoltà arrivano i mezzi di informazione tradizionali e i social.

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