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Sudan, un anno fa la marcia che segnò la fine del presidente Bashir

Un anno fa centinaia di migliaia di sudanesi animarono la più grande manifestazione nella storia del Sudan, una manifestazione che portò alla caduta del presidente Omar al Bashir, avvenuta l’11 aprile 2019 al culmine di proteste andate avanti per diversi mesi e costate la vita a centinaia di persone.
Oggi il processo democratico avviato a gran fatica sembra essere a rischio, gli ultimi mesi sono stati segnati da tentativi di attentati al primo ministro Hamdok e da un tentativo di colpo di stato, anche se l’esercito nega sia mai avvenuto.
La notizia era stata riportata dal quotidiano panarabo “Asharq Alawsat”, con sede a Londra, secondo cui
sospetti esponenti militari islamici accusati di pianificare un colpo di stato nella giornata del 6 aprile, in cui
ricorreva il primo anniversario dell’inizio del sit-in di protesta dei manifestanti della società civile che cinque
giorni dopo, l’11 aprile, portò al rovesciamento di Bashir, il quale è attualmente in arresto in Sudan in attesa di
estradizione dopo che lo scorso febbraio il governo di transizione ha accettato la sua consegna alla Corte penale
internazionale.  Già nel luglio scorso l’allora Consiglio militare di transizione – in seguito sostituito
dal Consiglio sovrano dopo l’ingresso delle Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc, il cartello che riunisce le
sigle della società civile) – svenò un tentativo di colpo di stato militare da parte di generali islamici (in gran
parte esclusi dal Consiglio sovrano) e rimosse importanti ufficiali dell’esercito noti per i loro legami con l’ex
presidente Bashir. A testimonianza della tensione che, a fasi alterne, ancora permea la vita pubblica in Sudan, cè
un altro episodio inquietante avvenuto lo scorso 9 marzo, quando il primo ministro ad interim, Abdallah Hamdok, è
sopravvissuto ad un attentato contro il convoglio in cui viaggiava nella capitale Khartum. Secondo diversi
osservatori l’attacco era da considerarsi come un “incidente di percorso” provocato, con ogni probabilitò, da quelle frange del potere ancora fedeli all’ex leader Bashir, con il probabile appoggio da parte di agenti “esterni” di cui tuttavia al momento non si conosce l’identità. Non è un caso, del resto, se in precedenza le autorità  di sicurezza dello stato di Khartoum avevano arrestato sei “elementi stranieri” entrati in Sudan con falsi passaporti siriani e coinvolti nella fabbricazione di bombe ed esplosivi, a dimostrazione della delicatezza delle tensioni che
attraversano il Sudan, all’interno e all’esterno del paese.
Il Consiglio sovrano aveva chiesto lacollaborazione internazionale per condurre le indagini sull’accaduto. Pochi giorni dopo una squadra di sicurezza dell’Fbi composto da tre esperti è infatti arrivata a Khartoum dagli Stati Uniti per partecipare alle indagini mentre le forze di polizia anno arrestato decine di persone sospettate di essere coinvolte nell’attentato. Proprio la collaborazione statunitense non desta stupore, dal momento che con
Washington si sta giocando la partita che più sta a cuore delle autorità di transizione sudanesi: quella per la
revoca delle sanzioni Usa. Per riuscire nell’intento Khartoum sembra disposta a tutto, e non è un
caso se il governo abbia accettato di risarcire le famiglie delle vittime dell’attacco al cacciatorpediniere
statunitense Uss Cole, avvenuto nel 2000 in Yemen. In base all’accordo, concluso la scorsa settimana presso un
tribunale della Virginia, il Sudan si impegna a risarcire con 30 milioni di dollari le famiglie dei 17 marinai
statunitensi rimasti uccisi nell’attacco, avvenuto il 12 ottobre 2000 nel porto di Aden, pur dichiarandosi non
responsabile per questo incidente ne’ per altri incidenti o atti di terrorismo. La decisione di risarcire le famiglie delle vittime, ha fatto sapere il ministro della Giustizia sudanese Nasr al Din Abdel Bari, è stata presa “al solo scopo di soddisfare le condizioni stabilite dall’amministrazione Usa per rimuovere il Sudan dall’elenco degli sponsor statali del terrorismo e di normalizzare le relazioni con gli Stati Uniti e il resto del mondo”.
La partita è aperta, ma il risultato finale e tanto atteso a Khartoum non sarà di breve termine.

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