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Burundi, cosa è realmente successo nel 1972? 2^Parte

Nell’aprile 1972 il Presidente Micombero si trovava alle prese con una invasione dal Ruanda e una ribellione hutu di chiaro stampo genocidario che si era diffusa a Gitega e nella capitale Bujumbura grazie al supporto dei ribelli congolesi di Mulele affiancati da 5.000 civili hutu in armi. A Gitega iniziarono i massacri etnici contro i tutsi cosi’ come in alcuni quartieri della capitale. Nelle prime 24 ore dell’attacco 3000 civili tutsi caderono sotto i colpi dei machete.

 

In un consiglio di guerra convocato dal Presidente Micombero il 29 aprile lo Stato Maggiore dell’esercito e il partito tutsi al potere: UPRONA (Partito della Unione e del Progresso Nazionale) venne annunciato il rischio di sopravvivenza per l’intera classe sociale tutsi: circa 1,2 milioni di persone e l’impellente necessità di fermare il genocidio.

 

Come prima mossa Micombero dissolse il suo governo incaricando l’esercito (controllato dai tutsi) dell’esercizio amministrativo e della difesa del Burundi. Circa 18.000 soldati appoggiati da artiglieria pesante e da blindati furono impiegati nei tre fronti: Rumonge – Nyanza Lac, Gitega e Bujumbura. Riportata una facile vittoria nella capitale, l’esercito si concentrò su Gitega, Rumonge e Nyanza Lac, queste provincie gli ultimi bastioni genocidari hutu a cadere. L’offensiva iniziò il 30 aprile 1972. Gli ordini erano di abbattere i ribelli prendendo solo i prigionieri indispensabili per ottenere informazioni ma che non eccedessero il numero di 100 individui.

 

L’esercito repubblicano scatenò un inferno di ferro e fuoco contro le forze genocidarie bloccando l’offensiva ordinata dal regime HutuPower di Kigali, liberando le città e i territori occupati, riportando l’ordine su l’intero paese in meno di dieci giorni. Il compito di sventare il genocidio contro i tutsi e debellare le forze mercenarie del Ruanda fu affidato a tre personaggi chiave della comunità tutsi burundese: il Generale Comandante dello Stato Maggiore dell’esercito: Thomas Ndabememye, al Ministro degli Interni: il Colonnello Albert Shibura e al Ministro della Informazione e Segretario esecutivo del partito tutsi UPRONA: Andrè Yanda. L’esercito repubblicano fu affiancato da una milizia para militare formata da giovani tutsi: la Gioventù Rivoluzionaria del Principe Rwagasore (IRR).

 

Tra il 30 aprile e il 2 maggio 1972 le operazioni militari si limitarono a evitare il genocidio e a sconfiggere le forze ribelli affiancate dai mercenari congolesi e ruandesi. Fu in una riunione dello Stato Maggiore e il presidente Micombero avvenuta nella serata del 2 maggio 1972 che prevalse la linea dura del Ministro degli Affari Esteri Artèmon Simbabaniye noto con il nome di “Hutu butcher” il macellaio di Hutu. 

 

Simbabaniye convinse tutti che il governo doveva infliggere una punizione esemplare a tutti i cittadini di origine sociale hutu al fine di prevenire future ribellioni e tentativi di genocidio. Le proporzioni della mattanza di tutsi attuata in pochi giorni dalle forze genocidarie hutu ruandesi-burundesi e il concreto pericolo che le masse hutu si unissero al genocidio a livello nazionale, convinsero presidente, governo ed esercito che la linea estremistica tutsi di Simbabaniye fosse l’unica soluzione alla crisi.

 

La repressione che segui’ la sconfitta dei genocidari hutu e dei mercenari regionali fu spietata quanto ingiustificabile. La sconfitta delle forze genocidarie di per se allontanava il rischio di rivolta popolare e la possibilità di riprendere il genocidio. Nonostante questa evidente realtà dal 03 maggio al 12 maggio 1972, circa 300.000 cittadini hutu furono abbattuti in tutto il paese per “dare l’esempio”. 

 

I cadaveri abbandonati nelle strade crearono una emergenza sanitaria che costrinse il personale medico civile e militare a lottare contro l’insorgere di epidemie. Migliaia di corpi furono bruciati per evitare lo scoppio di colera, peste, e altre epidemie legate alla decomposizione dei corpi e al relativo inquinamento delle falde acquifere causato dai liquidi e resti umani. 

 

Non fu risparmiato nessuno, nemmeno i bambini sotto i cinque anni. Si identificavano le zone da “ripulire” che venivano prima accerchiate e poi attaccate. La carneficina terminava quando l’ultima vittima aveva tirato il suo ultimo respiro. Ogni attacco liquidava dai 6000 ai 12000 civili. La milizia giovanile tutsi JRR giocò un ruolo criminale di primo ordine nell’eccidio di civili, rendendosi responsabile anche dello sterminio di tutti i criminali comuni e prigionieri politici hutu presenti nelle prigioni.

 

La rappresaglia contro i civili hutu prese le dimensioni di un genocidio in risposta ad un tentativo di genocidio che era stato sventato, anche se questo non è mai stato storicamente ammesso dalla minoranza tutsi e dalla maggioranza dei settori dell’informazione mondiale.

Dopo questo uso sproporzionato della forza che prendeva connotati di sterminio etnico,

entrò in azione il piano di annientamento della intellighenzia e della leadership politica hutu del Paese.

 

Circa il 82% degli intellettuali, leader politici, dottori, professori universitari, maestri, borgomastri e ufficiali amministrativi hutu fu abbattuto in meno di una settimana. Tutti eliminati assieme alle loro famiglie nel tentativo di privare alla maggioranza hutu di una leadership capace di organizzare future ribellioni. Non furono risparmiati neanche i preti cattolici, questi ultimi vittime delle manipolazioni dei missionari e del clero occidentale presente in Burundi. All’epoca la Chiesa Cattolica aveva compiuto una gravissima scelta di campo creando nel 1957 il Manifesto Bahutu e predicando la rivoluzione sociale hutu contro i tutsi.

 

Riuscito nell’intento in Ruanda il Vaticano, tramite i missionari belgi, francesi e italiani operativi in Burundi, lavorava come quinta colonna a favore dell’avvento del Urundi hutu etnicamente puro. Il clero occidentale conosceva bene le conseguenze genocidarie di questa politica ma le consideravano un male minore rispetto al diabolico dominio dei “figli di Satana”: i tutsi. 

 

Durante il genocidio contro gli hutu decine di preti burundesi furono uccisi per il loro supporto attivo nel tentativo di genocidio contro i tutsi. Ironia della sorte, missionari e preti occidentali, fomentatori della rivolta hutu furono risparmiati dall’esercito e dalla milizia para militare tutsi per paura di conseguenze internazionali. Furono proprio questi complici occidentali delle forze genocidarie Hutu venute dalla Tanzania che si proposero come “credibili e indipendenti” testimoni oculari dell’Olocausto subito dagli hutu, offrendo all’opinione pubblica internazionale una loro versione partigiana degli avvenimenti.

 

Una versione che accuratamente nascondeva il tentativo genocidario dei ribelli hutu, presentando il genocidio attuato dai tutsi come premeditato. Al contrario lo sterminio etnico attuato dall’esercito e milizie tutsi era frutto di un criminale opportunismo politico affiorato dal rischio di estinzione di 1,2 milioni di persone.

 

Il processo di riforma della Chiesa Cattolica nella regione dei Grandi Laghi iniziata nel 2013, che ha coinvolto vittime illustre quali famose congregazioni e media cattolici, si è resa necessaria per imporre una visione di riconciliazione hutu tutsi, il superamento degli odi etnici e la promozione della integrazione sociale, politica ed economica a livello regionale. Una politica considerata da Papa Francesco più consona e rispettosa del Messaggio Evangelico.

 

Il crimine contro l’umanità commesso dal governo tutsi trova una parziale spiegazione sulla composizione provinciale dei suoi autori appartenenti alla élite di Bururi. I principali attori del genocidio contro gli hutu, precedentemente elencati, appartenevano al clan tutsi della provincia di Bururi e alla stessa collina di Matana. 

 

Il clan di Bururi era riuscito a penetrare l’esercito, le istituzioni democratiche, l’amministrazione, la polizia, la magistratura e il partito al potere, UPRONA creando la psicosi del rischio di Olocausto perenne contro i tutsi per poter comandare indisturbati. Fu il clan di Bururi che creò la milizia giovanile delle JRR con lo scopo ufficiale di offrire alla comunità tutsi di una struttura di autodifesa popolare. 

 

In realtà le JRR svolsero compiti genocidari identici alla attuale milizia burundese HutuPower di Nkurunziza: le Imbonerakure. Il clan di Bururi era caratterizzato da un odio atavico contro la maggioranza hutu che non si differenziava dalla ideologia di morte del HutuPower. Giustamente alcuni storici africani coniarono l’appropriato termine di Tutsi-Power, l’altra faccia della ideologia genocidaria hutu.

 

L’avvento al potere del clan tutsi di Bururi e le ondate genocidarie del 1972 si inseriscono nella crisi di potere della classe dominante tutsi burundese tra gli Hima e i Banyaruguru. I primi fautori della Repubblica i secondi fedeli alla Monarchia. I clan tutsi Hima presero il sopravvento il 28 novembre 1966 grazie al colpo di stato attuato dal clan di Bururi guidato dal Capitano Michel Micombero futuro presidente burundese che pose fine alla dinastia dei Re Mwanutsa e alla Monarchia burundese.

 

Durante la Prima Repubblica i clan Hima occuparono i posti di comando nel governo e nell’esercito impedendo agli intellettuali hutu la partecipazione alla vita politica del Paese e diminuendo il ruolo di comando detenuto storicamente dagli Banyaruguru i clan tutsi vicini alla famiglia reale.

 

Nel luglio 1971 gli Hima distrussero le ultime sacche di potere Banyaruguru accusando i leader sopravvissuti di preparare un colpo di stato per re-instaurare la Monarchia. Furono fucilati nel gennaio 1972 a seguito della sentenza di morte pronunciata da un tribunale militare che organizzò un processo farsa contro le vittime.

 

Gli Hima erano paragonabili ai nazisti ruandesi del HutuPower in quanto sostenevano la superiorità tutsi, impedivano ogni ruolo della maggioranza hutu che non fosse di sudditanza. La sconfitta dei clan reali Banyaruguru privò al paese dell’equilibrio tra hutu e tutsi che era stato alla base della amministrazione del Burundi da parte della Monarchia, lasciando libero sfogo a correnti etniche apparentemente opposte ma aventi la stessa radice ideologica nazista di superiorità Hutu o Tutsi. 

 

Gli avvenimenti del 1972 sono stati soggetti a vari processi di revisionismo storico attuati con l’obiettivo di minimizzare lo sterminio etnico contro i tutsi ed esagerare quello subito dagli hutu. Questo revisione storica ha contribuito al rafforzamento dei rancori che sono alla base della tragedia che si sta consumando oggi in Burundi.

 

Il regime di Nkurunziza era ormai motivato dalla vendetta e dalla rivincita del 1972. L’alleanza con le forze ruandesi che perpetuarono il genocidio in Ruanda nel 1994: le FLDR ha accentuato questi spiriti di rivincita rendendoli irreversibili.

 

La morte del dittatore avvenuta nel giugno del 2020 non ha interrotto la revisione storica orientata verso la creazione di uno stato mono etnico, obiettivo dell’attuale giunta militare al potere capitanata dal Generale Neva (alias Evariste Ndayishimiye)  e il Primo Ministro il Maresciallo Alain-Guillaume Bunyoni. Questo esercizio di revisione storica viene svolto dal regime burundese per giustificare le esecuzioni di massa, gli stupri, la segregazione razziale, l’esclusione dal tessuto economico della minoranza tutsi per obbligarla all’esilio in terre straniere.

Al di la di faziose ricostruzioni storiche gli orrendi avvenimenti del 1972 sono in sintesi caratterizzati da un tentativo di genocidio contro i tutsi attuato dagli estremisti hutu fermato da una colossale pulizia etnica attuata dall’esercito e dal governo tutsi. Quest’ultimo sotto il punto di vista militare totalmente inutile ma cinicamente considerato necessario per impedire altre rivolte hutu.  

Qualsiasi diffusione della ricostruzione storica degli avvenimenti del 1972 creata e promossa dal regime HutuPower attualmente al potere non è solo un appoggio indiretto alla cultura della violenza e della negazione dei diritti umani, elementi tipici della gestione del paese del Generale Neva e del Maresciallo Generale Bunyoni che rappresentano il tratto più marcato della continuità politica con il defunto dittatore Pierre Nkurunziza.  

 

É prima di tutto una consapevole mistificazione storica che ostacola il faticoso obiettivo del popolo burundese di ripristinare democrazia, pace e stato di diritto. Il trauma collettivo del 1972 deve essere spiegato non per giustificare il dominio di un’etnia sull’altra ma come una lezione storica da evitare che si ripeti grazie al superamento delle divisioni etniche e il rafforzamento dell’identità nazionale Hutsi.

Questa è materia su cui riflettere seriamente.

 

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