vai al contenuto principale

Turchia a effetto domino e tanto altro nell’ Atlante geopolitico del Mediterraneo 2023

L’attacco russo all’Ucraina ha innescato una miccia che si chiama “disordine mondiale”. Non ne conosciamo le caratteristiche ma sappiamo che l’ordine politico del globo del dopo-Guerra fredda è finito e siamo entrati in una terra incognita, in particolare per l’Europa. La guerra russa all’Ucraina sembra non avere vie di uscita. Entrambi hanno i mezzi per non perdere ma non hanno quelli per vincere. Ogni atto, dell’uno o dell’altro Paese, produce controreazioni, equivalenti e contrarie.. Di fronte a questa situazione non sono mancati tentativi per trovare una soluzione. All’Assemblea generale delle Nazioni Unite è stata votata da 141 Paesi una mozione che chiede alla Russia “di ritirare immediatamente le proprie truppe dal territorio dell’Ucraina”come condizione per aprire un negoziato di pace, ma sette Paesi – Russia, Bielorussia, Corea del Nord, Eritrea, Nicaragua, Siria, Mali – hanno votato contro e 32 si sono astenuti; tra questi Cina, India e Pakistan. Il giorno dopo la Cina ha presentato una proposta di risoluzione della crisi ucraina ma è difficile che venga accettata:chiede che venga rispettata la “sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale di tutti i Paesi” (come se la Russia e l’Ucraina avessero entrambe violato tale principio) oppure chiede di “abbandonare la mentalità della Guerra fredda” in base alla quale “la sicurezza di una regione si ottiene rafforzando o espandendo i blocchi militari” (come se fosse stata la Nato ainvadere o a minacciare la Russia, come recita la più banale narrativa antiamericana). In realtà, ciò che interessa alla Cina è la stabilità dei commerci internazionali, più che la risoluzione del conflitto. C’è l’ esigenza diffusa che la guerra debba essere fermata, ma nessuno sa come farlo. Non sa come farlo l’Europa, che pure la guerra ce l’ha in casa. L’Ue è giunta impreparata al “ritorno della storia”, perché a lungo convinta che quest’ultima fosse finita. Di qui, le divisioni su come uscire dalla guerra. L’asse franco-tedesco che persegue la prospettiva del dialogo con la Russia di Putin, una prospettiva ragionevole nel medio periodo (visto che la Russia è vicina di casa nostra) ma assai di meno nel breve periodo (visto che la Russia non vuole “ballare il tango con noi”). Il blocco dei nove di Bucarest (Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia), che si è riunito senza l’Ungheria, persegue la prospettiva dell’ umiliazione militare della Russia di Putin, una prospettiva comprensibile nel breve periodo (vista l’aggressività di quest’ultima) ma assai di meno nel medio periodo (dato che una Russia umiliata costituirebbe una fonte costante di instabilità per l’intero continente). Il blocco di Bucarest non ha le risorse – economiche, politiche, culturali – per esercitare un ruolo di leadership all’interno dell’Ue, ma l’asse franco-tedesco (che quelle risorse le ha) non può esercitare quel ruolo a causa di egoismi nazionali e pretese egemoniche. Di conseguenza, la politica di sicurezza continua a essere decisa all’interno della Nato dove “chi contribuisce di più, conta di più”. Le politiche di Erdoğan hanno dimostrato di poter offrire ben poco alla Turchia: la speranza che riuscì a suscitare quando salì al potere nel 2002, forte delle promesse di rimettere in piedi il paese dopo un precedente devastante terremoto, si è ormai del tutto esaurita. La maggior parte delle risorse naturali della Turchia è stata saccheggiata e gli ultimi resti della sua già debole democrazia sono stati progressivamente smantellati, dai pochi diritti di cui godono le donne che sono stati gravemente limitati dopo il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla violenza di genere, alle ondate di arresti degli ultimi anni che hanno colpito le donne che lavorano nel giornalismo, nella società civile e nella politica (soprattutto donne del Partito Democratico dei Popoli, l’Hdp).

In questo scenario si inserisce lo sforzo analitico del nuovo Atlante geopolitico del Mediterraneo 2023, a cura di Osmed, l’ Osservatorio sull’ area mediterranea dell’ Istituto di Studi Politici “S.Pio V” (edito da Bordeaux) e presentato oggi all’ Università Guglielmo Marconi: il volume, che unisce storia e ontologia dell’ attualità, punta i riflettori sul Mediterraneo, da sempre luogo di incontro delle culture dei popoli, e in particolare sull’ imminente voto presidenziale e politico in Turchia, che dopo ventuno anni di governo dell’ autocrate Erdogan ha un’occasione più unica che rara di liberarsi dal potere oppressivo del suo presidente e in una situazione in cui sia Curdi che Hdp puntano a essere determinanti per la nascita del nuovo esecutivo. Più che mai in questi ultimi due decenni, la Turchia è a un punto di svolta. Il 14 maggio il paese eleggerà un nuovo parlamento e un nuovo presidente, nonostante gli sforzi di quello uscente per aggrapparsi al potere e ostacolare una transizione democratica. Nel turbolento periodo storico caratterizzato dalla crisi ucraina e da quella delle materie prime, i paesi europei guardano al Mediterraneo con rinnovato interesse, soprattutto in materia di politiche energetiche. L’Algeria è diventata interlocutore imprescindibile per gli interessi dell’Unione europea, mentre la Libia, a dodici anni dalla caduta di Gheddafi, non ha ancora ritrovato la sua unità. La Turchia, nel centesimo anniversario della Repubblica fondata da Kemal Ataturk, è chiamata a scegliere il proprio futuro nelle elezioni presidenziali e politiche del prossimo 14 maggio. L’Atlante Geopolitico del Mediterraneo, giunto alla sua nona edizione, affronta e analizza la situazione politica, economica e sociale degli 11 paesi della sponda sud del Mediterraneo e l’evoluzione del frastagliato quadro politico di una regione su cui, negli ultimi anni, si concentrano gli interessi di player globali e regionali come la Cina, la Russia e le Monarchie del Golfo.

Questa nona edizione dell’Atlante, come le precedenti, è strutturata in tre parti. La prima sezione, di approfondimento, ospita saggi che affrontano temi di stretta attualità che hanno un forte impatto sull’evoluzione del quadro politico regionale. Nella seconda sezione sono invece presenti 11 schede paese. Ciascuna di essa analizza la politica interna, la situazione socio-economica e la politica estera e di sicurezza di 11 paesi della sponda sud del Mediterraneo. L’ultima sezione del volume, Dialoghi Mediterranei, ospita saggi brevi che affrontano in maniera più agile rispetto alla prima sezione temi di immediato interesse o che potrebbero diventare centrali nel breve futuro. Tra i saggi di approfondimento, quello che apre l’edizione 2023 dell’Atlante è firmato da Karim Mezran, direttore della North Africa Initiative e Resident Senior Fellow del Rafik Hariri Center e Middle East Programs presso l’Atlantic Council di Washington D.C., dove è responsabile degli studi sui paesi dell’Africa settentrionale e in particolare sullo sviluppo dei sistemi politici interni e sulle relazioni internazionali dei singoli paesi. Mezran, ritenuto uno dei massimi esperti internazionali di Libia, ricostruisce l’evoluzione della guerra civile libica a partire dalla caduta di Gheddafi nel 2011. Nel suo lavoro emerge con chiarezza l’attuale frammentazione del quadro sociopolitico del paese e la difficoltà di individuare un percorso che, nel breve termine, possa ricondurre all’unità un paese devastato da dodici anni di guerra civile.

Così Francesco Anghelone, coordinatore dell’Osmed e curatore, con Andrea Ungari, dell’Atlante geopolitico 2023: “Si conferma nel Mediterraneo una fortissima instabilità. La situazione che si è determinata in Tunisia  a seguito della stretta autoritaria  a opera del presidente Sayed che sta suscitando forti preoccupazioni anche a  livello europeo. Un paese che sta attraversando gravi difficoltà economiche e sociali questo ha determinato partenze verso le coste europee: ad oggi partono più migranti dalle coste tunisine che da quelle libiche. Pensiamo poi alla situazione libica che continua a permanere a distanza di dodici anni dalla fine del regime di Gheddafi senza prospettive di stabilità politica nel breve periodo. E la Turchia che sta per affrontare un passaggio elettorale estremamente delicato. Un’area quella del Mediterraneo fortemente instabile che in questi anni ha aperto le porte anche afattori esterni che non si affacciano sulle sue coste. Penso alla Russia, alla Cina e ai Paesi del Golfo. Una tendenza in atto è  il grande protagonismo della Cina in Marocco e Algeria o la novità storica degli investimenti cinesi nel porto del Pireo in Grecia e nei porti spagnoli: un nuovo protagonismo non invasivo ma sempre più forte in Nord Africa e in tutto il bacino del Mediterraneo”. L’insicurezza del Mediterraneo è dovuta anche al fenomenomigratorio troppo spesso affrontato come emergenza e non comefenomeno strutturale che durerà nel tempo e ancora in attesa di una seria e responsabile politica europea. Così il sociologo Paolo de Nardis, presidente dell’ Istituto di Studi Politici “S.Pio V” che promuove il volume:
Mai come quest’ anno così drammaticamente effervescente il Mediterraneo si presenta come ricettacolo di un grumo umano frutto di persecuzioni e guerre spesso dimenticate, come quella del Sudan. Davanti ai nostri occhi si consuma da tempo l’ incapacità dell’ Unione Europea di affrontare e gestire il nuovo scenario internazionale e l’ indifferenza come unico antidoto ai crescenti flussi migratori sempre più carichi di minori soli. Anche in tal senso l’ Atlante geopolitico è un prezioso strumento di autoascolto di una situazione che è termometro anche di quei paesi che sul Mediterraneo non si affacciano ma che ad esso guardano come unica speranza di fuga e di vita.

Torna su