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Sudan, nuove violenze nella regione del Darfur e campi profughi al collasso

Il terrore degli anni più terribili del conflitto in Darfur si sta estendendo in tutta la regione occidentale del Sudan.
L’ultimo attacco contro la popolazione  inerme ieri a Geneina, almeno cinque le vittime. A colpire le solite milizie janjaweed armate dalla giunta militare al potere a Khartoum dal golpe del 25 ottobre dello scorso anno.
In otto mesi gli sfollati a causa delle nuove violenze sono stati oltre 300 mila. E le strutture di accoglienza non riescono a garantire assistenza a tutti.
Neanche nella regione vicina, Gadaref, c’è la possibilità di trovare riparo essendo l’area già affollata da decine di migliaia di profughi provenienti dall’Etiopia.
Una lunga distesa di casupole di lamiere, capanne di terra e arbusti e tende malmesse che spiccano con i loro bagliori metallici e macchie blu, il colore delle strutture abitative delle Nazioni Unite: ecco come appare dall’alto il campo di Gadaref (al-Qadarif in arabo) dove hanno trovato rifugio almeno 60 mila sfollati del Tigray.

Intere famiglie in fuga da bombardamenti e fame dopo che il primo ministro etiope, e premio Nobel per la pace, Abiy Ahmed ha ordinato un’offensiva militare per scalzare dal potere il governo locale del Fronte di liberazione del Tigray.

A pagare il prezzo maggiore del conflitto la popolazione civile che per salvarsi da combattimenti, repressioni e stupri, è fuggita verso il paese confinate.

“Appena sono iniziati gli scontri abbiano capito che non eravamo più al sicuro. Sono scappata con tutta la mia famiglia perché non volevo che le mie figlie venissero stuprate come era accaduto a me quando avevo solo 13 anni, durante la guerra tra Etiopia ed Eritrea. Ma la vita in questi campi è davvero dura. Ci sono stati giorni, durante la stagione delle piogge, che abbiamo rischiato di essere portati via dalle alluvioni” è il racconto di Almaz Regat, 33 anni madre di due ragazze adolescenti e di due maschi di 11 e 13 anni.

“Abbiamo dovuto lasciare per due volte le tende che ci avevano dato in dotazione perché erano andate distrutte. Per giorni abbiamo dormito in una delle poche rimaste in piedi. eravamo una dozzina in uno spazio destinato a 4 persone. Abbiamo passato settimane insonni perché non riuscivamo a sdraiarci per dormire. E oggi che la stagione delle piogge è finita non va meglio perché abbiamo poco da mangiare e molti sono ammalati” la sua amara conclusione.

Almaz non dice di più. Ma i suoi occhi parlano per lei. Esprimono terrore, incertezza. Ha paura di dire di più. 

Nel suo Paese si stanno compiendo atrocità senza.

“Sono stati aperti dei veri e propri campi di concentramento, ai deportati vengono sequestrati i cellulari. Parenti e amici di abitanti del Tigray che cercano di far loro visita ai loro familiari vengono bloccati fuori dalle strutture e rimangono lì per giorni cercando di avere notizie dei loro familiari detenuti. Ogni giorno, alcuni prigionieri vengono selezionati e portati in luoghi sconosciuti e di loro non si sa più nulla” sostiene  TGHAT, collettivo formato da ricercatori, attivisti e volontari.

Le condizioni di vita nelle strutture di accoglienza in Sudan, dove in alcuni casi erano già ospitati profughi di altri paesi, come a Mayo dove è presente una numerosa comunità del Sud Sudan, sono al limite della sopravvivenza.

“Qui a Khartoum è arrivata una minoranza degli sfollati etiopi – fa sapere la Commissione degli aiuti umanitari sudanese –  ma pesa enormemente sull’economia sociale dell’agglomerato di Mayo che accoglie un numero complessivo di persone che oscilla tra i 700 mila e il milione. Ma vista la vastità del campo è mpossibile una stima certa”.

Il Sudan, a fronte delle grandi emergenze che lo destabilizzano sia dall’interno che dall’esterno, non ha la capacità di offrire un’assistenza ottimale.

A meno di 500 chilometri dalla capitale, scossa dalle proteste contro il colpo di stato del 25 ottobre – poi rientrato con il reintegro del premier deposto Abdalla Hamdok – si combatte una vera e propria guerra tra truppe etiopi, eritree e sudanesi.

Il casus belli è la costruzione della “Gerd”, la “Grande Diga della rinascita”, un progetto su cui i tre paesi coinvolti, Etiopia, Egitto e Sudan, avevano trovato un accordo poi venuto meno per il mancato rispetto di alcuni termini da parte di Addis Abeba, che ha fortemente voluto e realizzato la grande opera.

L’instabilità a causa della “guerra per l’acqua” e il predominio su un’arra di oltre 600 mila acri di terreni molto fertili, rischia di aggravare ulteriormente la crisi per la carestia nella regione che ha ampliato le sacche di disagio e di insussistenza per milioni di persone nel Paese.

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