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Sudan, Marco Zennaro sta male. Il padre rientra in Italia: intervenga Draghi

Marco Zennaro sta male e cresce il timore di un gesto insano nei familiari che hanno ricevuto come suggerimento dei medici di Emergency (l’imprenditore veneto è stato visitato tempo fa dallo staff del Salam Center di Khartoum) di farlo seguire da uno specialista.
il 46enne, trattenuto in Sudan con accuse di truffa, si trova in condizioni psicologiche preoccupanti.
“Se la sua permanenza forzata in Sudan dovesse prolungarsi ancora molto, potrebbe non reggere” è la certezza della famiglia che attraverso la voce del padre, che lunedì dovrebbe rientrare in Italia, è pronta a lanciare un appello al premier Mario Draghi: “L’unico modo per tirare fuori Marco dall’inferno di Khartoum è che il governo garantisca per lui versando la cauzione per la causa civile rimasta in piedi dopo l’archiviazione delle denunce penali”.
Pur manifestando apprezzamento per quanto fatto finora dal governo italiano, che ha inviato nel paese africano il rappresentante della Farnesina per gli italiani all’estero e la cooperazione Luigi Vignali, Cristiano Zennaro, capostipite della nota famiglia veneta, ritiene che le vie diplomatiche non siano sufficienti e che l’intervento del ministro degli Esteri Luigi Di Maio non abbia sortito il risultato sperato: il via libera al rientro del figlio in Italia.
“Se la Farnesina non ha fondi diretti, deve intervenire la Presidenza del Consiglio per depositare la seconda somma necessaria come garanzia per fare rientrare Marco in Italia nell’attesa che finisca l’iter processuale” è l’auspicio manifestato ad amici e parenti ma anche a esponenti delle istituzioni italiane chiedendo interventi significativi per arrivare alla soluzione del caso.
Forte del consiglio medico dei dottori di Emergency, la famiglia spera di avere buone chance che l’appello possa essere recepito.
Ma a Khartoum non tutti guardano a questa possibile soluzione con favore.
”L’Italia sta facendo una brutta figura, qui pensano tutti che stiamo difendendo un truffatore” afferma con rammarico un nostro connazionale che da oltre vent’anni vive in Sudan e porta avanti business con aziende locali.
”È stato già fatto tanto, non credo sia giusto che gli italiani si facciano carico dei casini di un imprenditore che ha tentato di fare il colpo della vita. Qui non sono stupidi e sono pronti a far valere i propri diritti e riprendersi i soldi versati per commesse che non hanno rispettato gli accordi commerciali stipulati tra le parti. Questa è gente che non scherza (ndr i sudanesi). L’unico modo per uscirne è pagare” dice senza esitazione chiedendo l’anonimato per non incorrere in possibili ritorsioni.
Su questa “previsione” ci sono pochi dubbi: senza un accordo con le società clienti degli Zennaro, la “Jalabi & son” e la “Sheikh El Din & brothers”, la causa civile, tenendo conto dei tempi della giustizia sudanese, rischia di protrarsi per oltre un anno.
Al momento l’unica certezza è la condizione di grande disagio dell’imprenditore, in condizioni estreme a causa del caldo e delle restrizioni a cui è obbligato non potendo lasciare il Paese.

Zennaro dopo aver trascorso quasi due mesi in detenzione prima in una stazione di polizia poi in prigione a Khartoum, era stato scarcerato nell’attesa dell’ l’iter processuale.
La situazione si è di nuovo complicata quando il pubblico ministero aveva revocato il dispositivo di scarcerazione. Solo i solidi rapporti diplomatici tra Italia e Sudan hanno portato alla decisione definitiva del giudice di disporre i domiciliari presso un albergo del centro della Capitale.
I presupposti per velocizzare la soluzione del caso c’erano tutti. A cominciare dalle assicurazioni del primo ministro sudanese, Abdalla Hamdok, che all’inviato della Farnesina Vignali aveva garantito il rispetto dei diritti umani e un giusto processo per il nostro connazionale.
I legali, una volta archiviate le denunce penali, hanno avviato una mediazione con l’intento di chiarire al più presto gli aspetti non definiti della controversia economica e favorire una transazione che portasse a un accordo.
Le parti ritenute ‘offese’ chiedono la restituzione di quanto pagato: un milione 156 mila euro la prima commessa,  700 mila la seconda.
La presentazione delle denunce, sulla base della legislazione vigente in Sudan, aveva portato all’arresto di Marco Zennaro, amministratore dell’azienda di famiglia, che da marzo si trovava a Khartoum per tentare di risolvere la questione.
Tutto è scaturito dal mancato certificato di conformità sui trasformatori venduti dall’azienda di Zennaro.  Secondo la famiglia dell’imprenditore non è stato rilasciato perché a effettuare le verifiche è stata  una società concorrente.
La prima disputa tra la Zennaro Electrical Constructions di Marghera (Venezia) e la Jalabi Company, che aveva firnato l’ordine con l’impresa italiana e che fungeva da mediatore tra quest’ultima e un’altra società sudanese, la Hightend Multi-Activities Company, è scaturita da questo.
In un primo momento la controversia era stata superata con il pagamento da parte di Zennaro di 400 mila euro, ma la Hightend Multi-Activities Company, insieme a una terza, la Sheikh El-Din Brothers – che a sua volta aveva acquistato i trasformatori dall’impresa veneta – hanno depositato un ulteriore esposto alle autorità sudanesi contro Zennaro.
La situazione si è dunque complicata anche se, essendo decaduti i procedimenti penali, la famiglia di Zennaro sperava in una soluzione più rapida. Aspettative deluse dall’impossibilità di versare l’elevata somma richiesta come cauzione per permettere all’imprenditore di rientrare in Italia. Da qui la richiesta al governo italiano di farsi garante e permettergli di attendere gli esiti della causa civile a casa dopo aver trascorso alcuni giorni in Ambasciata (attualmente è in albergo dove lo ha raggiunto la moglie) per il timore di un nuovo arresto.

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