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Senegal: una società al bivio? Venti di wahhabismo in Africa Occidentale

Mettiamo insieme i pezzi. Ho comprato un libro di un autore senegalese di nome Abasse Ndione, acquistato tanto per il titolo “Vita a spirale” quanto per la copertina, una profusione di colori tra l’ocra e il verde militare con sullo sfondo quello che mi è sembrato un baobab in mezzo al deserto. La trama è presto detta, un giovane spacciatore di etnia lebou e il suo gruppetto di amici alle prese con tante avventure e scontri generazionali tra giovani e anziani capi villaggio. Datato 1998, il romanzo è diventato un bestseller letto addirittura nelle scuole del Senegal. Esprime, fatto incredibile nella cornice di una società conservatrice seppure intrisa di gioia di vivere e tolleranza, una ribellione contro un sistema politico-sociale che non credevo possibile. In effetti, i senegalesi della diaspora sono reticenti nelle descrizioni del loro mondo d’origine, ed è difficile cogliere elementi di malcontento. Di solito, si accontentano per quieto vivere di uniformarsi in silenzio agli altri connazionali: va sempre tutto bene grazie ad Allah!

Nello stesso periodo mi sono imbattuta in un reportage sulla rivista Africa che descriveva il Vaticano senegalese, sarebbe meglio dire la Mecca senegalese, ossia Touba, la città santa dei fedeli della confraternita islamica dei muridi, dove vige assoluta aderenza ai principi dello Shaykh Ahmadou Bamba[1]. Sostanzialmente in questa sorta di città-stato si prega e si lavora senza che le distrazioni (e le distorsioni) del mondo turbino l’equilibrio della comunità. “Le scuole sono esclusivamente coraniche e l’insegnamento in arabo e wolof. Le succursali delle banche occidentali non hanno diritto di stare nei pressi della grande moschea”[2]. L’obbedienza e lo stare sulla retta via sembrano costituire l’habitus degli abitanti di Touba e dei loro confratelli. Questa religiosità è in contrasto con la vita dallo spirito laico che si respira a Dakar, ma non è decontestualizzata, anzi sono molto stretti i rapporti tra muridiyya e politica. Il sistema delle confraternite – in Senegal se ne contano almeno quattro – ha intrecciato la sua storia con la politica del Paese e in passato si parlava apertamente di ndigel, ossia dell’indicazione di voto data dai capi religiosi ai fedeli. Non c’è aspetto della vita che non passi al setaccio del marabutto. La maggior parte dei migranti senegalesi con cui ho lavorato ha richiesto la benedizione per il viaggio al marabutto dietro elargizione di cospicui doni in denaro o in natura. La loro autorità è radicata e solida. Più di una volta, dai racconti frammentati dei miei studenti d’Africa Occidentale, ho avuto l’impressione che fossero partiti anche per fuggire da questo sistema sociale così inscalfibile e statico che li incasella alla nascita e li obbliga ad assolvere una lunga lista di doveri: dovere filiale, dovere religioso, dovere di marito e di padre, dovere nei confronti del clan, doveri morali, dovere politico. Nel viaggio, duro e umiliante, hanno raggiunto una nuova dimensione che non li ha salvati dai doveri verso i propri familiari (le tecnologie non lasciano scampo a chi vorrebbe fuggire da tutto e tutti) ma ha regalato loro uno spazio di libertà individuale mai assaporato prima. Il viaggio ha anche insegnato loro la diversità nella fede islamica: durante il periodo del digiuno di Ramadan, in una classe in cui insegnavo l’italiano avevo oltre a senegalesi di etnie diverse, gambiani, maliani, burkinabé, ghanesi, beninesi, guineani, pakistani e nigerini. Avevo elaborato un quiz sul mese sacro islamico e sulle tradizioni ad esso collegate. Si era aperta una diatriba multilingue sulla possibilità o meno di lavarsi i denti. Il problema per taluni consisteva nel pericolo di ingerire delle gocce d’acqua, e come ben noto i musulmani osservanti il digiuno, non possono bere né mangiare e fumare fino al crepuscolo. La questione era diventata una patata bollente che ha surriscaldato gli animi. Imparare la convivenza è difficile anche tra fedeli di uno stesso credo quando non si è educati a rispettare le diversità e ad accoglierle benevolmente. Tuttavia, il sorriso era l’arma bianca dei senegalesi, che non hanno mai dato in escandescenza, dimostrando spirito di apertura e adattamento, al contrario di qualche studente del Sahel che pretendeva che le insegnanti non indossassero maglie sbracciate o che si rifiutava di sedersi vicino ai nigeriani cristiani o ai pakistani, sciiti o sunniti che fossero.

Spinta dal desiderio di capire meglio un Paese che non conosco in profondità pur conoscendone da anni un buon numero di immigrati ben integrati in Italia, ho seguito la recente querelle che ha avuto per protagonisti i membri della ONG Jamra, organizzazione di ispirazione wahabita[3], e i sostenitori di alcune produzioni televisive senegalesi accusate dai primi di inaudita rilassatezza dei costumi e oscenità all’occidentale maniera. Nelle soap opera locali Cirque Noir (Circo nero)[4], Les Infidèles (Infedeli) e Maitresse d’un homme marié (Amante di un uomo sposato), emergono a quanto pare temi scottanti ma reali: amore, poligamia, relazioni extraconiugali, inganni, alcolismo, violenza coniugale, matrimoni forzati. Senza tralasciare delle sparute scene osé che hanno urtato le sensibilità di alcuni e sollevato conseguenti richieste di censura. In Senegal queste serie tv sono molto seguite, proprio perché rispecchiano la società, l’emancipazione femminile e al contempo le difficoltà che le donne incontrano in una società dominata da un islam tollerante ma anche da tradizioni ferme e implacabili. Le lamentele di Jamra, è innegabile, hanno scosso i senegalesi: da che parte stare?

Sul forum di un canale televisivo senegalese ho raccolto e tradotto questa testimonianza contro l’ONG islamica, sebbene le lamentele di Jamra sfiorino le corde dell’animo di molti sengalesi:

“Non abbiamo certo respinto la colonizzazione dei toubàb (i bianchi, ossia i Francesi) per venderci adesso agli Arabi! Jamra e i salafiti fondamentalisti del Paese vogliono cambiare la nostra società per trasformarci in Sauditi o Iraniani. Noi non lo saremo mai, siamo e restiamo neri africani! Vogliono fare del nostro Paese una Somalia o un Mali di turno, distruggendo ogni traccia delle nostre confraternite e dei nostri santi… I veri problemi non sono l’omosessualità bandita dai fondamentalisti, ma la pigrizia, la cretinizzazione dei giovani, la corruzione, il rifiuto di istruirsi, gli stupri e la violenza sulle donne,  l’indisciplina collettiva, le daara (scuole coraniche) che molestano i talibé (i giovanissimi studenti) la strumentalizzazione che marabutti, imam e maestri fanno della religione per fini personali. I veri temi non mancano, ma Jamra di questo non parla”.

Non mi accingo a una scoperta epocale, ma forse la società senegalese è meno monolitica di quel che non voglia apparire all’esterno. Ritengo un bene l’esistenza di più animi all’interno di una società, ma vi è chi si sente depositario della verità unica e ricerca l’omologazione come sola opzione giusta per i senegalesi (leggi musulmani senegalesi). E questa opzione guarda verso la qibla, ossia verso Mecca, e punta sull’identità islamica e sulla contrapposizione tra valori islamici e valori occidentali. L’ondata di islamismo dal Golfo ha portato con sé nel Sahel un modello di islam rigorista e anche la distruzione dei santuari legati a santi uomini e donne sentiti vicini dalla popolazione locale, persone dotate di baraka, cioè di carisma.

Come avviene il radicamento dei gruppi salafiti?

“Ogni quartiere di Dakar comprende una cellula o sezione di base, in cui si riuniscono i fedeli. Lì si recano due volte a settimana, per il rito del giovedì sera e per svolgere varie attività (apprendimento del Corano, canto, corsi di cucito, di falegnameria, di controllo delle nascite, ecc.). I seguaci si ritrovano per qualche ora, fuori dal mondo, per vivere pienamente la loro fede. Vi si incontrano altri giovani che condividono un comune sistema di valori. I discepoli si definiscono in funzione di un esterno, di una diversità respinta, quale è per loro la vita nella società civile e cercano in questi movimenti altri modi di vivere. Entrare in questi gruppi significa abbandonare abitudini di vita devianti come il consumo d’alcol, di sigarette, la frequentazione di luoghi ricreativi e accettare di conformarsi alle regole della comunità. Imparano come vestirsi (di preferenza di bianco, quale segno di purezza), come camminare per strada senza voltarsi, senza sputare, come salutare, come parlare a un primogenito, come comportarsi nel proprio ambiente familiare … L’obiettivo dei leader è di inglobare completamente la vita degli adepti per farli uscire dall’ambiente urbano familiare e trasformarli in nuovi individui, per i quali gli insegnamenti del movimento costituiscono il solo riferimento. Luoghi di socializzazione urbana per giovani di qualunque origine e alla ricerca di valori, i movimenti offrono un sentimento di rinascita ai loro discepoli che spesso dicono di vivere l’appartenenza religiosa come un appello divino e molti sono persuasi di essere stati scelti personalmente per aderirvi. Questa “vocazione” li convince di essere sulla vera Via che conduce a Dio e che la loro guida spirituale sia in grado di dare il giusto insegnamento”.[5] Il sistema di proselitismo poggia su ampie disponibilità economiche che consentono a questi movimenti fondamentalisti di sostituirsi allo Stato nel sostegno agli emarginati e agli ultimi con asssitenza e servizi:

“Decisi a soppiantare un governo che, secondo loro, lascia la società senegalese in una condizione dannosa per l’islam, organizzano separatamente attività cittadine di pulizia delle strade, degli ospedali, delle scuole, ecc. In diversi momenti dell’anno chiamano i loro adepti a lavorare in massa in un cantiere definito (dissodamento di un cimitero, bonifica di un corso d’acqua, restauro di aule scolastiche, ecc.). Questa opera, molto mediatizzata, consente di far parlare di loro, rivelandosi benefattori per l’intera società”.[6]

L’islam africano si è innestato, sin dagli albori, su un sostrato di tradizioni che si sono amalgamate alla fede nel Dio unico, ma che di fatto hanno contribuito a disegnare un islam “africano” per l’appunto, che si discosta dall’islam della penisola arabica o dell’Indonesia. Il Senegal ha abbracciato l’islam ma lo ha tinto dei suoi colori: spiritualità (confraternite sufi) e tolleranza (circa il 10% della popolazione è cristiana), credenze e laicità[7].

I fondamentalisti salafiti nel Paese rappresentano l’1% ma sono organizzati in associazioni e agguerriti. Sanno bene che la battaglia per la vera fede che portano avanti, si combatte sul piano dell’Educazione nazionale, e dai primi anni Duemila perorano la causa della lingua araba nelle scuole, quando le lingue autoctone o impiegate per l’insegnamento sono altre: wolof e francese. Inoltre, l’insegnamento della religione islamica è stato introdotto nel 2002, e pullulano le scuole coraniche informali che ospitano soprattutto poveri, data la loro gratuità.

Alla luce del diffondersi di compagini fondamentaliste nel Maghreb e nei Paesi subsahariani, viene spontaneo chiedersi se il Senegal reggerà l’onda d’urto o se cambierà il suo DNA. Alla mente ritornano delle conversazioni occorse all’Università di Algeri, dove ho insegnato, e dove l’occhio attento era capace di notare che le studentesse velate seguivano nuove mode nell’uso del velo non ascrivibili alle tradizioni nordafricane, bensì a quelle saudite. Durante l’analisi di un testo sulla storia dei tatuaggi, numerose furono le voci sapientemente pronte a ripetere a memoria che “le anziane donne arabe o berbere (le loro nonne, per esempio) che si tatuavano il volto, le braccia e le mani non hanno e non avevano colpa, poiché non conoscevano la vera religione a causa dell’ignoranza diffusa. “Fortunatamente oggi” – ripetevano quasi all’unisono – “conosciamo la vera religione e sappiamo che è proibito tatuarsi il corpo perché apparteniamo a Dio e siamo una sua creazione immodificabile. Inoltre, quei tatuaggi hanno fini superstiziosi che mal si conciliano con la vera fede, ma sono parte di vetuste tradizioni da accantonare”.

In Senegal intanto non sono mancati gli scontri aperti e le manifestazioni contro i salafiti che mettono in discussione l’islam di casa, la devozione nei confronti dei marabutti, l’atteggiamento verso l’omosessualità o le questioni di genere. Lo Stato è chiamato a gestire questa bomba a orologeria, non resta che monitorare la situazione augurandosi che gli anticorpi a questo insidioso virus siano sufficienti.

[1]Shaykh A. Bamba (1850-1927) è stato un mistico, leader fondatore della confraternita Muridiyya cui aderisce un terzo della popolazione senegalese. Il motto dei muridi è “Prega come se dovessi morire domani e lavora come se vivessi per sempre”: la comunità è preminente sul singolo, e il maestro è la figura chiave che guida i confratelli. Bamba iniziò con l’organizzare campi di lavoro e preghiera. I Francesi si insospettirono temendo una rivolta ed esiliarono lo shaykh in Gabon (1895-1902) e in Mauritania (1903-1907). Questo esilio provocò un forte attaccamento alla fede islamica nel Paese, in funzione identitaria e anticoloniale. Alla sua morte, nel 1927, il potere si trasmise per via ereditaria. La sua figura viene ricordata annualmente in occasione della festa del Gran Magal, che prevede il pellegrinaggio alla grande moschea a Touba, la visita alla tomba del santo e altri festeggiamenti.

[2]Ragusa, S.: “Senegal. La Mecca dell’islam senegalese” in Africa, n.6 novembre-dicembre 2020, (pp.80-85).

[3]Lo wahabismo è una corrente riformista dell’islam che deve il suo nome al teologo arabo chiamato Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhāb (1702-1792) che affermò con intransigenza la contrarietà dell’islam verso usanze popolari come la visita alle tombe dei santi e la richiesta di una loro intercessione. In nome della dottrina sull’unicità di Allah (at-tawhìd) professata nella shahada islamica, ai seguaci wahhabiti, maggioritari in Arabia Saudita, appare chiaro che queste usanze erano e sono da considerarsi pura idolatria da combattere. Di qui gli attacchi di gruppi salafiti alle tombe di santi in Marocco e in tutto il Sahel. Cfr. Commins, D.: “Il Wahhabismo e il suo sviluppo” (www.oasiscenter.eu).

[4]Notizia del 16 agosto 2021 è l’arresto del regista, dello scenografo e di dieci attori della serie Cirque Noir, a seguito della messa in onda del trailer della serie tv e della denuncia da parte di Mame Mactar Gueye, dell’ONG Jamra, che ha definito “pornografica” questa produzione. L’accusa formulata è quella di “diffusione di immagini contrarie al buon costume e oltraggio al pudore”.

[5]Samson, F. e Baldo F. (trad.): “Fondamentalismi in concorrenza: nuovi movimenti musulmani e cristiani a Dakar”, Afriche e Orienti, (3-4), 44-56.

[6]Ibidem.

[7]Cfr. Pellegrino, C.: “L’islam inclusivo del Senegal” (www.oasiscenter.eu).

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