vai al contenuto principale

Salvare vite in mare: l’esperienza di Mediterranea alla conclusione della decima missione

Mediterranea Saving Humans si occupa dal 2018 di osservazione e monitoraggio, ricerca e soccorso a tutela dei diritti umani nel Mediterraneo Centrale e il 27 gennaio 2022, con l’attracco in Sicilia, si è conclusa la sua decima missione in mare.

Durante questa missione, con la nave Mare Jonio,  sono state salvate 214 persone in due diverse operazioni.

Le informazioni sulle possibili localizzazioni delle imbarcazioni sono arrivate dalle preziose indicazioni del collettivo Watch the MedAlarm Phone (progetto creato nel 2014 da reti di attivisti e attori della società civile in Europa e Nord Africa) e dalle osservazioni del veivolo Colibrì-2 (bimotore utilizzato dall’ong francese Pilotes Volontaires per sorvegliare il tratto di mare davanti alla Libia).

Un’azione corale di ricerca e soccorso, quindi, lungo la rotta migratoria che si è confermata come la più pericolosa e mortale al mondo.

Nel suo comunicato, pubblicato online al termine della missione#10, Mediterranea riporta che “il momento più bello è stato quando fratelli e amici, che erano stati separati a bordo delle due diverse imbarcazioni e temevano per la sorte gli uni degli altri, hanno potuto riabbracciarsi a bordo delle MARE JONIO, in un’incredibile esplosione di gioia“.

Perchè accade anche questo, tra noi e l’altra sponda del “nostro” mare, quello sulle cui spiagge passeggiamo e prendiamo il sole in estate. La gioia di riabbracciare familiari, amici e compagni di viaggio apre uno squarcio sulla paura che pervade le persone che tentano l’attraversamento del Mediterraneo verso l’Europa, apre uno squarcio anche sulle tante crudeltà che si compiono in Libia, a pochi chilometri dalla costa siciliana, italiana, europea.

Proviamo quindi a focalizzare l’attenzione all’interno della nave di salvataggio, sforzandoci di capire meglio preparazione, automatismi, emozioni e coinvolgimento delle persone che operano sulle navi di soccorso e, un po’, di quelle che sono state salvate e aiutate.

Cerchiamo di capirne di più parlando con Sheila Melosu, 35 anni di Palermo, dal 2019 responsabile della logistica per le missioni e Capomissione nella missione 10 di Mediterranea.

Durante il primo intervento della Mare Jonio durante la missione 10, l’equipaggio è riuscito a salvare oltre un centinaio persone che si trovavano stipate su una barca di legno, sovraffollata, col motore in avaria e che imbarcava acqua.

Ci può descrivere la situazione del primo salvataggio? Cosa si prova in un contesto simile?

Da Capomissione per prima cosa ero in tensione per il nostro Rescue Team. Mi fido ciecamente di loro, ma il contesto non era dei migliori. Era notte fonda quindi buio, la barca in difficoltà imbarcava acqua già da tempo e la gente a bordo era molto agitata.

  Era una piccola barca di legno con due ponti sovrapposti, quindi c’erano persone anche sottocoperta, in uno spazio minuscolo dal quale era molto difficile uscire, e a rischio soffocamento.

Sapevo bene quanto per i miei compagni fosse una situazione difficile da gestire, ma l’addestramento, l’esperienza maturata e la loro grande capacità di gestire situazioni ad alto rischio hanno fatto sì che tutto andasse per il meglio.

Io ero sul ponte della Mare Jonio mentre loro erano sui RHIB (i nostri gommoni con i quali vengono fatte le operazioni di soccorso) e già da lì sentivo le urla delle persone nella notte, sentivo e percepivo la loro paura e, mentre ero certa che dai RHIB stessero operando nel miglior modo possibile, dovevo mantenere la lucidità e preparare la nave ad accogliere i naufraghi. Questo è quello su cui mi sono concentrata: fare in modo che tutto potesse funzionare al meglio.

Quello che a mio parere è necessario per affrontare simili situazioni è sicuramente uno specifico addestramento, ma anche e soprattutto la condivisione di racconti e criticità con chi ha vissuto simili esperienze. Perché è solo ascoltando chi c’è già passato che puoi trovare delle soluzioni rapide a tutti gli imprevisti che possono succedere. E per questo non ringrazierò mai abbastanza chi è stato in missione prima di me e ha deciso di raccontarmi e raccontarsi.

Durante la seconda operazione, a pochissime ore dalla prima, avete salvato un centinaio di persone tra cui molte donne, ragazzini e bambini (anche piccoli). Quali emozioni avete provato?

Ovviamente vedere in mezzo al mare esseri umani così piccoli, fragili e indifesi, avere la consapevolezza che non sanno in alcun modo cosa gli stia capitando e guardare i loro occhi impauriti non è facile e fa decisamente arrabbiare. Ma fortunatamente quelli che abbiamo salvato questa volta erano tutti con le loro mamme e devo dire che i più grandi dopo qualche ora di riposo avevano una gran voglia di giocare. I bambini del resto hanno un’ottima capacità di adattamento.

Personalmente mi ha colpito profondamente anche avere a bordo quasi 30 minori non accompagnati dai 12 ai 17 anni. Ragazzi che hanno viaggiato da soli per mesi attraverso l’Africa e che sono rimasti, sempre da soli, nei centri di detenzione in Libia per mesi. O che hanno perso la loro famiglia lungo il “viaggio”.

Ogni volta che incrociavo il loro sguardo mi chiedevo cosa avessero visto e vissuto sulla loro pelle, quali strumenti emotivi e psicologici potessero avere a quell’età per affrontare dei dolori, dei traumi e delle paure così profonde e radicate. Ero, e sono ancora, molto preoccupata per il loro futuro e per tutto quello che da soli dovranno ancora affrontare. Avrei voluto rassicurarli e dirgli che tutto sarebbe andato bene, che sarebbe stato facile e sereno, ma purtroppo la verità non è sempre questa.

Il senso di ingiustizia e impotenza, nei confronti di tutti i sopravvissuti, mi ha accompagnato in ogni momento. La mia rassicurazione è stata ripetermi costantemente “almeno adesso sono salvi, almeno adesso hanno una possibilità”.

Una volta a bordo, quali sono le reazioni delle persone salvate? Quali quelle dell’equipaggio?

Molti sono stremati e provano a trovare un posto dove riposare e sentirsi finalmente al sicuro, altri pregano immediatamente, altri piangono, tutti ti guardano con gli occhi stracolmi di riconoscenza e non smettono mai di ringraziarti.

Io ho avuto la fortuna di operare insieme a un equipaggio meraviglioso ed estremamente collaborativo, parlo degli attivisti ma anche di tutti i marittimi che lavorano sulla Mare Jonio. Alcuni hanno riso, altri hanno pianto, di certo tutti ci siamo emozionati. Era un misto tra la gioia per essere tutti in salvo e la rabbia per quello che avevamo visto.

Questa volta noi avevamo veramente tanta gente in nave e la maggior parte del tempo l’abbiamo passata a gestire tutte le esigenze a bordo, non abbiamo avuto modo di approfondire con tutti la conoscenza. Quello che posso affermare però è che tutti i superstiti ci hanno dato una mano per tenere pulita la nave, per distribuire cibo, acqua e vestiti, per aiutare chi non era al massimo delle proprio forze.

È stata umanamente un’esperienza straordinaria.

Se solo fossimo in grado di ricreare fuori dalla nave il sistema di mutuo aiuto che si è creato in quei giorni vivremmo decisamente in un mondo migliore.

Da che nazione provenivano? Come comunicavate?

Le persone erano delle più disparate nazionalità, avevamo Sudanesi, Sud Sudanesi, Nigeriani, altre provenienti dalla Costa d’Avorio, dalla Guinea, dal Gambia, dall’Egitto.

In molti parlavano francese e arabo, qualcuno anche in inglese. Ed erano loro stessi ad aiutarci nelle traduzioni.

La Mare Jonio non è una nave molto grande, com’è l’organizzazione a bordo con così tante persone?

Non è stata facile, soprattutto passate le prime 24 ore, per le condizioni igienico-sanitarie. Tutto l’equipaggio non ha smesso un attimo di provvedere alle diverse esigenze delle persone. Ma tutti hanno collaborato a rendere la Mare Jonio il più organizzata e vivibile possibile.

Di fondamentale importanza è stato l’arrivo, a più di 30 ore dalle operazioni di soccorso, di una piccola barca con a bordo alcuni attivisti di Mediterranea che ci hanno portato coperte in più, cibo caldo ed acqua. Questo ha subito determinato un miglioramento dell’umore tra i naufraghi e una maggior tranquillità in tutto l’equipaggio, sapendo che tutti i nostri sopravvissuti potevano passare la secondo notte sulla Mare Jonio più protetti e al caldo.

Come stavano quelle persone dopo tante ore passate in mare?

Le persone erano molto provate, sia mentalmente che fisicamente, in molti soffrivano il mal di mare. Tanti erano affamati, disidratati e infreddoliti. Sono arrivati a bordo con tutti i vestiti bagnati e intrisi di benzina, cosa che ha provocato a tanti di loro delle ustioni su diverse parti del corpo. Tanti erano in stato di shock e quasi tutti terrorizzati all’idea di essere costretti a tornare in Libia.

Una notte si è alzato un po’ il mare -eravamo vicino Lampedusa- e il comandante ha deciso di chiedere di poterci spostare dall’altro lato dell’isola, più riparato da mare e vento. Una volta arrivato il via libera da parte della Capitaneria di Porto e accesi i motori della nave, in tanti sono venuti con la faccia terrorizzata a chiederci spiegazioni. Volevano tutti essere rassicurati che non li stessimo portando nuovamente in Libia.

Avete riscontrato segni di maltrattamenti subiti in Libia?

Sì. Più di una persona veniva a chiedere di vedere il medico per dei problemi legati alla permanenza in Libia e poi scoprivamo che erano segni di maltrattamenti e percosse.

Un ragazzo giovanissimo è venuto da me a scusarsi perché doveva stare in piedi (mentre chiedevamo di rimanere seduti il più possibile) visto che non poteva stare a lungo con le ginocchia piegate. Le aveva entrambe rotte, e ovviamente mai curate, a causa delle violenze subite in Libia.

C’è un ricordo, un pensiero, una riflessione che vorrebbe condividerci?

Quello che vorrei aggiungere è un ringraziamento alla Guardia Costiera che opera a Lampedusa.

Nella notte in cui eravamo in rada vicino l’isola ha operato un salvataggio di 305 persone e pochi giorni dopo un altro con circa 280 persone di cui 7, a sole 24 miglia dalle coste europee, sono poi morte per ipotermia.

Grazie perché ogni volta che possono, come tutti gli uomini e le donne di mare, intervengono nel salvare chi in mare rischia di morire.

Nella speranza che i governi europei abbandonino presto le attuali (pseudo-) poliche di migrazione e asilo (attuali e in discussione), sostanzialmente improntate al rafforzamento dell’esternalizzazione delle frontiere, al porre ostacoli a quella libertà di movimento sancita nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, nonchè all’aumento dei respingimenti e dei rimpatri (forzati), facciamo nostre le parole che Sheila Melosu ci ha rivolto al termine dell’intervista:

Mi chiedo però perché i nostri politici, non solo quelli italiani, non smettano di trattare il fenomeno migratorio come un fenomeno emergenziale. Mi chiedo perché non scelgano di agire, come hanno fatto in passato con la missione “Mare Nostrum”, schierando navi che sarebbero in grado di salvare migliaia di persone in una sola operazione.

Mi chiedo perché non scelgano di agire per salvare e proteggere bambini, donne e uomini che provano ad attraversare le “frontiere” (concetto obsoleto che esprime chiusura e difesa) di terra e di mare in cerca di una vita migliore, aprendo finalmente canali sicuri e legali di accesso.

Torna su