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REPORTAGE / Egitto: “Ecco perché la verità su Giulio Regeni resta lontana”

Arrivando a “Il Cairo”, già dalle prime luci del giorno, la prima cosa che colpisce è la cappa grigia che ricopre la capitale dell’Egitto: la città con il più alto tasso di inquinamento atmosferico, acustico e luminoso del mondo. Un’immagine che rispecchia plasticamente l’apparato statale del Paese.
Seppur rallentate per il contenimento della pandemia di Covid – 19 le attività nella metropoli egiziana proseguono a ritmi regolari come le repressioni nei confronti di chi non è allineato sulle posizioni del governo.
Negli ultimi mesi il sistema repressivo si è scagliato anche contro i giornalisti e gli operatori sanitari critici per la mala gestione dell’emergenza.
Scioperi, dimissioni, denunce sulle condizioni insostenibili di lavoro negli ospedali al collasso, male attrezzati e senza sistemi di protezione, si sono susseguiti tra marzo e giugno come gli arresti dell’Nsa, i servizi di sicurezza egiziani interni, gli stessi responsabili della sparizione e delle torture che hanno portato alla morte di Giulio Regeni.
Decine di medici, infermieri e farmacisti sono finiti in carcere per aver espresso sui social media le loro preoccupazioni. Ma anche operatori dell’informazione come Mohamed Monir, accusato di diffondere notizie false.
Altro non aveva fatto, Monir, che criticare su Al Jazeera la risposta del governo al Covid-19.
L’atmosfera a Il Cairo, dove si può pagare cara una sola parola sbagliata, è carica di tensione. I racconti dei pochi che hanno il coraggio di denunciare ci rimandano un sentimento diffuso cupo e angosciante, che rappresenta lo spirito di gran parte della popolazione che ha perso fiducia nel governo.
Le rivolte contro il regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi suscitate dalle accuse di corruzione di Mohamed Ali, ex contractor della security egiziana che accusa Al Sisi, la moglie e alcuni generali dell’esercito di aver deviato denaro pubblico, sono state represse con violenza.
L’insoddisfazione tra la gente e il video dell’appello a manifestare di Ali diventato virale, con milioni di visualizzazioni, aveva portato nei mesi scorsi in strada migliaia di egiziani che chiedevano le dimissioni dell’ex generale.
“Quello egiziano è tra i sistemi autoritari più spietati e duri del mondo. Anche durante la crisi per il coronavirus il regime ha fatto scattare repressioni immotivate. Approfittando dell’emergenza Al Sisi ha avocato a sé ulteriori poteri” spiega Abdallah Said, attivista di lungo corso più volte arrestato che oggi vive nel Regno Unito – Decine di oppositori e attivisti per i diritti umani sono stati arrestati nell’ultima settimana con lo stesso modus operandi adottato nei confronti dei manifestanti fermati da settembre a oggi: chiunque esprima dissenso, in questo caso sulla gestione della pandemia, o condanni gli arresti arbitrari e denunci gli episodi di tortura, finisce nel mirino della Procura speciale antiterrorismo”.
La maggioranza degli egiziani non accetta di buon grado di vivere sotto la pressione di un regime abituato a stroncare con la forza ogni forma di opposizione. Ma è convinta che nulla possa cambiare. I giovani, soprattutto chi studia, hanno un solo obiettivo: lasciare il Paese.
La china di autoritarismo intrapresa da tempo dall’Egitto è ormai senza ritorno. L’uso della tortura e delle ‘sparizioni forzate’ per ridurre al silenzio oppositori e attivisti da parte dei Servizi di sicurezza, di cui abbiamo sperimentato la spietatezza con l’omicidio brutale di Regeni, è ormai sistematico come la violazione dei diritti di tutti i cittadini e i continui arresti senza alcuna base giuridica.
Le organizzazioni per i diritti umani denunciano che sia ormai una prassi, al momento del fermo dei malcapitati di turno, che non venga formulata alcuna imputazione mentre la detenzione preventiva si prolunga ben oltre il consentito. Si attende anche mesi prima di comparire davanti a un giudice.
Lo sa bene Patrick George ZakI, arrestato, torturato e detenuto dallo scorso febbraio per il suo impegno a difesa dei diritti umani. I reati contestati allo studente egiziano, iscritto a un master all’Università di Bologna, vanno dalla pubblicazione di false notizie che mirano a disturbare la pace, all’istigazione alle proteste senza il permesso, dal tentativo di rovesciamento dello Stato alla gestione di social media con lo scopo di minare l’ordine sociale e la sicurezza pubblica e l’istigazione al terrorismo.
Le continue violazioni dei diritti perpetrate in Egitto sono raccolte in un rapporto della ‘Commissione egiziana per i diritti e le libertà’, guidata da Mohamed Lofty, consulente della famiglia Regeni, che mette nero su bianco ciò che organizzazioni non governative come Amnesty International denunciano da tempo: dal Cairo ad Alessandria esiste un unico canale giudiziario diretto che va dall’arresto alla condanna, passando per le torture finalizzate a estorcere ammissioni di colpevolezza per reati mai commessi.
Le testimonianze delle vittime raccolte dalle ong hanno ampiamente dimostrato come il sistema di sicurezza egiziano utilizzi pratiche terribili, come l’applicazione di elettrodi per indurre scosse o lo stupro compiuto con spranghe di ferro.
Secondo Amnesty, la National security sottopone i detenuti a violenti e coercitivi interrogatori lunghi dai tre ai cinque giorni fino a una o più settimane, in molti casi finiti con il decesso delle vittime.
Giulio Regeni, che nulla aveva da confessare e forse per questo ha pagato con la vita, è solo il caso più eclatante, quello che ha mostrato al mondo il volto autoritario e feroce dell’Egitto.
Dei ‘Giulio’ egiziani che attendono verità e giustizia si è ormai perso il conto.
”L’Egitto non consegnerà mai gli uomini dell’apparato di sicurezza che hanno ucciso Giulio Regeni – afferma Said – prima di tutto perché potrebbero fare il nome del figlio di al Sisi, che all’epoca era a capo della struttura che lo aveva preso in custodia. In generale, l’Egitto non potrà mai ammettere che si sia trattato di un omicidio di Stato. Sarebbe troppo imbarazzante per i partner occidentali che non hanno mai smesso di fare affari con questo regime”.
A pensarla come Said è la maggioranza degli analisti che seguono e ben conoscono le questioni egiziane.
Il realismo non può che portare a un’unica considerazione finale: il governo italiano, consapevole che non otterrà mai nulla di concreto dall’Egitto, se non un fascicolo con i documenti del ricercatore friulano e alcuni oggetti che nemmeno erano suoi, continuerà a trascinare la questione nel tempo, confidando nell’oblio, attendendo che l’opinione pubblica dimentichi, che la Commissione parlamentare sulla morte di Giulio Regeni esaurisca il suo mandato e che i genitori si rassegnino.
Ma è questa l’unica vera ‘falla’ del ‘piano’ del governo.
Paola Deffendi e Claudio Regeni non smetteranno mai di reclamare verità e giustizia per il figlio, un ragazzo di 28 anni barbaramente ucciso senza un perché.

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