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RD Congo, tutte le domande che attendono risposte per porre fine alle impunità

Non c’è un luogo sicuro nell’Est della Repubblica democratica del Congo, non c’è una strada o una città o un villaggio in cui ci si possa muovere con la certezza di non rischiare la vita. E’ in questo contesto, un contesto di guerra, che sono morti Luca Attanasio, Mustapha Milambo e Vittorio Iacovacci. Una guerra dove per le morti, le violenze e le razzie non paga quasi mai nessuno. Una guerra di tutti contro tutti, per il controllo delle risorse minerarie, della terra, di un bosco, per un po’ di potere o solo per mangiare.

Sarà difficile dipanare le ombre di questo agguato, ma è necessario che l’inchiesta in corso ci provi. Il convoglio del Programma alimentare mondiale era un obiettivo? O lo era l’ambasciatore? La strada era “sciura”? Chi ha sbagliato nel pianificare la protezione? E’ stato un tradimento? Quali potrebbero essere gli autori dell’attacco?

Sono rientrata in Italia da alcuni giorni ed ho fatto quel tragitto, ho viaggiato nell’Est in zone diverse con livelli di rischio differenti. Non ci sono risposte per quelle domande, ma si può provare a spiegarne il contesto. Con molta cautela e la coscienza che il conflitto del Congo è troppo complesso per facili ricostruzioni.Che il convoglio fosse un obiettivo, non è detto, ma è possibile. Dubito fortemente, come ho letto, perchè si volesse uccidere l’ambasciatore – per altro gli esami autoptici dimostrerebbero che non si è trattato di un’esecuzione – per fantomatiche vicende legate alle miniere. O a causa del malcontento nei confronti dell’ONU in quelle zone, che ha assunto ben altre forme e con chiare rivendicazioni negli ultimi anni nei confronti della missione dei caschi blu, la Monusco, in particolare. Forse il movente è stato solo il riscatto, e forse è stato persino casuale. Il rapimento a scopo di estorsione è una prassi attraverso cui gruppi armati e bande di criminali, spesso fuoriusciti dalle milizie e mai reintegrati nella società, si finanziano: operano ovunque, anche in città. Essere un obiettivo potrebbe significare, molto semplicemente, che qualcuno poteva sapere che quel giorno il convoglio sarebbe passato di li. E’ un rischio, questo, con cui tutti coloro che si muovono su quelle strade si confrontano e per il quale vengono messe in atto delle precauzioni, sapendo che possono non essere efficaci, perché, lo ricordo, è una guerra. E basta davvero una voce, una voce che può assomigliare ad un “tradimento”, ma che avrebbe potuto riguardare qualunque occidentale di cui si conoscessero i movimenti e nascere persino dal caso, da un osservatore attento, da un veloce passaparola. Anche noi giornalisti mettiamo in atto queste precauzioni. I nostri fixer si informano con fonti sul posto, verificano le condizioni di sicurezza il giorno stesso e noi cerchiamo, per quanto possibile, di non far sapere dove andiamo e quando. I colleghi locali sanno osservare il comportamento dei viaggiatori su quelle strade, segnali che possono indicare che qualcosa non va. Sono attività di “intelligence” non sempre sufficienti e non sempre in grado di proteggerci da quelle “voci”. Noi non viaggiamo con la scorta, di solito scegliamo di muoverci nel modo più anonimo possibile, ma non siamo diplomatici o membri di organizzazioni intergovernative. Il rischio di rapimento in quelle zone è, comunque, molto elevato per i civili congolesi, assai meno per gli occidentali ed i membri delle ONG.

La seconda questione è la sicurezza di quella strada. E’ una strada insicura, perchè tutta quell’area è insicura. Ma in tutte le guerre, ed anche qui, ci sono zone dove il rischio è molto più alto, dove le ONG non mandano personale che non sia locale – o non ne mandano affatto -, strade dove si viaggia sempre con la scorta. Alcuni di quei percorsi ho scelto di non fari. Quel tratto della Route Nationale 2 è pericoloso, ma non era, in quei giorni, considerato il più pericoloso. In guerra, ad un certo punto, il rischio si accetta oppure non ci si muove e in quella strada il traffico è intenso perché collega Goma all’Uganda, non ci sono alternative. Se fosse necessaria la scorta per un diplomatico è una valutazione che spetta a chi si occupa della sicurezza dei rappresentati dello Stato. Ciò che posso dire è che lì, le organizzazioni che lavorano sul territorio, la scora non la hanno. Ci si chiede se sia stata sottovalutata la pericolosità di quello specifico tratto: Luca Attanasio era una persona esperta che conosceva l’Est, ma non era certo lui, immagino, a raccogliere informazioni sul campo. Chi lo doveva fare? I nostri servizi di intelligence? Il PAM? Ci sono stati errori? Queste, forse, sono le domande a cui si potrà, invece, dare una risposta ricostruendo cosa è stato fatto per valutare la sicurezza della strada quel giorno, perché queste sono valutazioni che si fanno ogni giorno. Potrebbe anche emergere che sia stata semplicemente la volatilità di una guerra a determinare quanto accaduto, ma questo è forse uno di quegli aspetti su cui le organizzazioni coinvolte potranno e dovranno fornire chiarimenti. Mi sembra assai poco plausibile che le autorità locali non siano state informate.Anche identificare gli autori sarà molto difficile. Benché in quella zona operino le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda, la dinamica, per quanto ne sappiamo oggi, lascia pensare ad un rapimento finito male ad opera non certo gruppi strutturati. Le tensioni di quell’area d’altronde non riguardano solo le FDLR o solo me le miniere, ma la terra, il parco, dove le esigenze di protezione dell’ambiente hanno modificato gli assetti di sfruttamento del territorio e generato molti conflitti. E’ difficile persino contare gli attori in campo. Se fossero le AFD, le Forze democratiche alleate di matrice islamica, saremmo di fronte ad una cambio di strategia significativo di un gruppo che non sembra abbia mai operato nelle zone dove è avvenuto l’agguato. A loro si attribuiscono massacri e violenze più a nord, nel territorio di Beni e al confine con l’Ituri.L’oscurità di questa vicenda è, in fondo, l’oscurità di tutta la guerra che si combatte nell’Est del Congo. La speranza è che questa inchiesta sia un passo verso la fine dell’impunità. Ma è la guerra che deve finire se si vuole fare giustizia. E’ la guerra che ha ucciso quei tre uomini sulla strada per Rutshuru.

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