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Conflitti

Rd Congo, lo stato d’assedio e la forza regionale nell’est messi in discussione

Come riferito da “Focus on Africa” a fine aprile, il generale keniota Jeff Nyagah, comandante della forza regionale della Comunità degli Stati dell’Africa orientale (EACRF) nell’est della Repubblica Democratica del Congo, ha rassegnato le dimissioni perché riteneva che la sua incolumità non fosse più garantita e che ci fossero incomprensioni insormontabili con il governo congolese…

Come riferito da “Focus on Africa” a fine aprile, il generale keniota Jeff Nyagah, comandante della forza regionale della Comunità degli Stati dell’Africa orientale (EACRF) nell’est della Repubblica Democratica del Congo, ha rassegnato le dimissioni perché riteneva che la sua incolumità non fosse più garantita e che ci fossero incomprensioni insormontabili con il governo congolese in merito alla strategia con cui affrontare i gruppi ribelli e, in particolare, l’M23, contro cui Kinshasa ha concentrato tutte le sue attenzioni nel corso dell’ultimo anno.

Rd Congo, si dimette il generale a capo della forza regionale dell’EAC

Immediatamente, il presidente keniota William Ruto ha nominato un successore, il generale Alphaxard Muthuri Kiugu, ma dopo quasi due settimane la frattura con le autorità della RDC resta ancora aperta, perché queste dubitano dell’efficacia della forza regionale impostata nella maniera attuale, nonché delle modalità politico-diplomatiche del Kenya.

Ieri, 9 maggio, ad esempio, durante una conferenza stampa in Botswana il presidente congolese Félix Tshisekedi è tornato sulla nomina del nuovo comandante della forza regionale dell’EAC, Alphaxard Muthuri Kiugu, che a suo avviso non ha tenuto conto del parere del governo della RDC:

“Alcuni contingenti della forza regionale hanno chiarito quando sono arrivati ​​che non sono lì per combattere l’M23. C’è anche il problema del generale Jeff Nyagah, che si è clamorosamente dimesso, sorprendendoci tutti parlando di minacce, minacce di cui non ci aveva mai riferito prima. Quando decide di lasciare la RDC, il Kenya nomina direttamente un altro comandante della forza senza consultazione poiché questa forza apparteneva solo al Kenya. C’è chiaramente un problema. Dobbiamo chiarire la situazione”.

Il giorno prima, lunedì 8 maggio, a Windhoek (Namibia) la Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe (SADC) (Namibia, Sudafrica, RDCongo, Tanzania, Angola, Malawi e Zambia), riunita in un vertice straordinario, ha deciso di partecipare alla forza regionale nell’est congolese, dispiegando delle proprie truppe. Come ha riferito Christophe Lutundula, Vice-Primo Ministro congolese e Ministro degli Affari Esteri, il dispiegamento militare della SADC è “imminente” e che soddisferà “tutte le condizioni richieste, per un vertice di coordinamento di tutte le parti intervenute e di tutti gli attori internazionali sul campo, al fine di arrivare a un’azione efficiente e armonizzata“.

La decisione della SADC è avvenuta in seguito a una serie di sopralluoghi effettuati nel marzo scorso nel Nord Kivu e nell’Ituri, al fine di indagare sulla situazione della sicurezza a Goma e soprattutto nella regione di Beni, dove imperversa la violenza delle ADF e di altri gruppi armati.

In generale, la strategia militare e poliziesca della RDCongo appare sempre più inefficace: il conflitto (ma bisognerebbe usare il plurale: i conflitti) nell’est del Paese non sono risolti, né ridotti; la capacità diplomatica internazionale, così necessaria per costruire una coalizione che riporti la sicurezza nelle province orientali, è continuamente in bilico; lo scoppio di nuovi conflitti si registra anche in altre zone del Paese, come nella provincia di Mai-Ndombe, vicino Kinshasa, dove due giorni fa uno scontro tra i Teke, che si considerano autoctoni e proprietari dei villaggi situati lungo il fiume Congo su una distanza di circa 200 chilometri, e gli Yaka, stabilitisi su quel territorio dopo di loro, ha causato 9 morti (tra cui due bambini) e 5 feriti gravi, che porta ad almeno 300 le vittime di questo nuovo conflitto, secondo i dati di “Human Rights Watch”.

Negli stessi giorni, Amnesty International ha espresso un duro giudizio su un ulteriore aspetto della strategia congolese per riportare la sicurezza nelle province orientali, ossia lo stato d’assedio, che è in vigore da due anni (dal 6 maggio 2021). Secondo Tigere Chagutah, direttore regionale di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale, “le autorità della RDCongo devono revocare immediatamente lo stato d’assedio, che è simile allo stato di emergenza, in vigore da due anni nelle province di Nord-Kivu e Ituri, in quanto viola la Costituzione del Paese e la legge internazionale sui diritti umani” e, inoltre, “ha contribuito al peggioramento della situazione dei diritti umani nel Paese“.

L’obiettivo dichiarato dello stato d’assedio (che era definito come una misura temporanea eccezionale della durata di 30 giorni) era di “migliorare rapidamente la protezione dei civili, frenare i gruppi armati e ripristinare l’autorità dello Stato“, ma il bilancio dopo due anni è che la sicurezza nelle due province è drasticamente peggiorata: sono aumentati molto gli attacchi contro civili e le vittime civili, le libertà e i diritti delle persone sono state profondamente compresse e la misura dello stato d’assedio è stata prorogata più di 50 volte dal governo, dimostrando improvvisazione e, soprattutto, assenza di qualsiasi dibattito pubblico significativo sulla legalità o sul merito di tali proroghe. Nonostante lo stato d’assedio, l’esercito della RDC ha costantemente fallito nel prevenire o rispondere ai crescenti attacchi contro i civili da parte dei gruppi armati, anzi, secondo le informazioni raccolte dall’Ufficio congiunto per i diritti umani delle Nazioni Unite, gli stessi militari regolari congolesi si sono resi responsabili di numerose e gravi violazioni dei diritti umani contro i civili.

Il bilancio è di tante persone detenute arbitrariamente nelle province del Nord-Kivu e dell’Ituri semplicemente per aver criticato lo stato d’assedio e le autorità militari, ma è soprattutto di innumerevoli morti, feriti o donne violentate. Su quest’ultimo punto, Medici Senza Frontiere (MSF) ha dichiarato, martedì 9 maggio, che nelle ultime due settimane ha preso in cura oltre 670 vittime di violenza sessuale nei centri per sfollati nel Nord Kivu. Sono cifre scioccanti che testimoniano l’estrema vulnerabilità e il rischio di violenza a cui è esposta la popolazione e, in particolare, gli sfollati e le sfollate.

Quasi il 60% delle vittime è stato attaccato meno di 72 ore prima di presentarsi a MSF, a dimostrazione dell’urgenza della situazione“, ha affermato MSF in un comunicato stampa inviato a Radio Okapi, l’organo di stampa della MONUSCO, la missione di peacekeeping dell’ONU nell’est congolese.

Quasi tutte le vittime sono donne e la maggior parte di loro ha dichiarato di essere stata aggredita mentre si spostava alla ricerca di legna da ardere e cibo. La metà delle vittime ha riferito di essere stata attaccata da uomini armati.

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