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Quale futuro per il Sudan dopo la firma dell’accordo di Addis Abeba?

Le acque del Nilo Bianco scorrono calme fino alla confluenza nel Nilo Azzurro. I postumi della stagione secca ne hanno ridimensionato l’alveo ma il flusso resta maestoso. Le grandi piogge non sono ancora arrivate. Giorno dopo giorno sulle sponde che si estendono da Nile Street a Kalifa Road si arenano i cadaveri di decine di sudanesi uccisi nell’assalto del 3 giugno davanti al quartier generale dell’esercito. Almeno 118 i manifestanti morti durante lo   sgombero del presidio ordinato dalla Giunta militare al potere. 
L’ultimo a riemergere, con il toub rosa che ancora la avvolgeva, il corpo di Amal Gous, giovane ‘signora del te’ che vendeva  l’infuso durante le manifestazioni per guadagnare qualche pounds con cui sostenere la famiglia. 
Il fiume che attraversa Khartoum, la capitale del Sudan, appare placido e tranquillo. Nasconde gli orrori che proseguono impunemente nel Paese ma prima o poi emergono e non è più possibile celarli. 
È la metafora plastica della situazione in Sudan oggi, una calma apparente interrotta da repressioni violente ogni qualvolta si animi una qualsiasi azione di protesta per manifestare dissenso.  Come sta avvenendo anche in queste ore, mentre in Etiopia si firma l’accordo raggiunto per l’avvio di un Consiglio sovrano che resterà in carica tre anni, fino alle elezioni previste nel 2022. 
Il fantasma islamista, le manovre dei generali fedeli all’ex presidente Omar Hassan al Bashir, deposto con un colpo di stato l’11 aprile, e la tenuta delle Forze delle libertà e del cambiamento, sono gli elementi e le incognite che con i massacri delle Rapid support forces, le milizie paramilitari che in passato hanno compiuto crimini in Darfur, segnano e condizionano il futuro e la stabilità del Sudan.
Ma per ora prevale la soddisfazione dell’Associazione dei professionisti, che rivendica la vittoria del popolo, promotrice delle rivolte contro Bashir.  Una vittoria pagata a caro prezzo: 500 morti e oltre 7 mila feriti.
Ottimismo per la fumata bianca è stato manifestato anche del portavoce del Tmc, Shams al Din Kabbashi, che ha parlato di una svolta grazie all’apertura della Giunta dimostrata poche ore prima con la liberazione di 235 prigionieri politici appartenenti ai gruppi ribelli del Darfur.
Nonostante gli impegni assunti, a cominciare dall’inchiesta indipendente sullo sgombero del presidio davanti al quartier generale dell’esercito del 3 giugno e sulle violenze di piazza delle ultime settimane che hanno causato numerosi morti, la tenuta dell’intesa è da verificare sul campo.
Non meno di 48 ore fa le milizie paramilitari, le Rapid support forces, hanno sferrato un attacco nel nord del Darfur uccidendo almeno dieci persone.
La tensione non è dunque destinata a scemare.
Soprattutto a fronte delle nuove dichiarazioni del generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto con il soprannome ‘Hemeti’, il quale ha ribadito che per il massacro del 3 giugno il Consiglio militare non ha alcuna responsabilità.
Un passato da venditore di cammelli, quattro mogli e innumerevoli figli,  l’uomo forte della Giunta militare è colui che al momento ha ‘davvero’ nelle mani il potere in Sudan. Una carriera in ascesa quella di Dagalo nell’esercito, proprio grazie alle repressioni perpetrate dalle milizie che guidava in Darfur
È lui il grande manovratore per rinsaldare l’asse tra Khartoum, le monarchie del Golfo (A
rabia Saudita ed Emirati Arabi) e i loro alleati, in primo luogo l’Egitto. Lo dimostrano i viaggi compiuti  in alcuni Stati arabi che hanno deciso di supportare apertamente i generali sudanesi. Anche quando il protagonista sembrava fosse Burhan, che nelle scorse settimane si è recato a Il Cairo e Abu Dhabi, dove ha incontrato rispettivamente il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e il principe ereditario Sheikh Mohamed bin Zayed al Nahyan.
Le visite del generale che guida la Giunta erano state precedute da quella dal suo vice in Arabia Saudita, dove è stato a colloquio con l’erede al trono, il principe Mohammed Bin Salman.
Un’intensa attività diplomatica, che segue la missione a Khartoum di una delegazione congiunta emiratina-saudita subito dopo la destituzione di Bashir, che testimonia una volta di più l’intenzione delle autorità di transizione sudanesi di abbracciare l’asse formato da Riad, Abu Dhabi e Il Cairo, a scapito degli alleati storici, il Qatar e la Turchia. 
L’operato di Hemeti, vera e propria eminenza grigia del Consiglio, rivela dunque il reale obiettivo dei militari: l’intenzione di consolidare il potere. La domanda che sorge spontanea è la seguente: alla fine dei 21 mesi di presidenza del Consiglio Sovrano i militari saranno davvero disposti a lasciare il passo ai civili?
Per chi, come chi scrive, conosce bene il passato del Sudan e i personaggi che hanno in mano il destino del Paese le perplessità restano.

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