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Per il Senegal ci vorrebbe un Senghor

Non può che destare preoccupazione ciò che sta avvenendo in Senegal, specie se si considera che ormai mezza Africa è in fiamme e che i colpi di Stato si susseguono nei vari paesi, ridisegnando la geografia politica di un continente senza pace. Nel caso specifico del Senegal, non si tratta di stabilire chi sia meglio fra Macky Sall e il principale oppositore Ousmane Sonko (sindaco di Ziguinchor nonché leader del partito d’opposizione Pastef, messo recentemente al bando dal governo al pari di TikTok), forte del sostegno di moltissimi giovani ma anche intriso di idee conservatrici, per non dire quasi reazionarie, almeno secondo il nostro metro di giudizio, in materia di diritti civili. Si tratta di inscrivere la vicenda senegalese nel quadro più ampio di un disfacimento generalizzato che non può non preoccuparci. Perché se l’Africa salta, se viene investita da una miriade di golpe, se le sue innumerevoli risorse diventano oggetto di nuove mire predatorie, più di quanto non sia avvenuto finora, se avanzano gruppi terroristici e prendono piede i miliziani della Wagner; insomma, se implodono i già fragili equilibri di una realtà che avrebbe bisogno di autonomia e indipendenza, l’Europa sarà la prima a essere investita dalle gravissime conseguenze che si verificheranno. E allora, considerando anche che fra le rivendicazioni degli oppositori di Sall c’è l’emancipazione pressoché totale dalla Francia e dal concetto, considerato umiliante, della “Françafrique”, di cui il Franco CFA costituisce l’emblema, sorge spontanea la necessità di appellarsi ai principî di Senghor. Léopold Sédar Senghor, fondatore insieme ad Aimé Césaire della “Négritude” (la “Negritudine”), una corrente letteraria e artistica dai fortissimi risvolti politici, fu infatti il primo presidente del Senegal indipendente dal 1960 al 1980. Pur presentando alcuni aspetti controversi nella sua azione di governo, non c’è dubbio che ebbe il merito di favorire sia la conquista di un ruolo di primo piano nello scacchiere africano da parte del proprio Paese sia di promuovere una convivenza pacifica e collaborativa con quella che era stata la madrepatria. Non a caso, quando se ne andò, il 20 dicembre del 2001, l’allora presidente francese Chirac, ultimo baluardo del guallismo prima dell’ascesa di una destra pericolosa e a tratti quasi reazionaria, dichiarò: “La poesia ha perso uno dei suoi maestri, il Senegal un uomo di stato, l’Africa un visionario e la Francia un amico”.

Se il Senegal non è stato investito dall’ondata di orrori che hanno sconvolto molti altri stati africani in seguito a un processo di decolonizzazione costretto immediatamente a fare i conti con le mire sovietiche e americane nel contesto della Guerra fredda, è dunque solo grazie al prestigio e all’autorevolezza di Senghor, oltre che ai suoi ideali di convivenza pacifica in grado di favorire una notevole fioritura culturale e il mantenimento di livelli di benessere invidiabili nel contesto dell’Africa profonda.

Contro ogni forma di colonialismo, vecchio e nuovo, bisognerebbe riscoprire anche i valori alla base dell’Ujamaa (che può essere tradotto con “famiglia estesa”), l’ideologia proposta dall’allora presidente della Tanzania, Julius Nyerere, che può essere considerata la via africana al socialismo. Se davvero il continente che è stato la culla dell’umanità vuole affrancarsi dalla barbarie che lo sta investendo, infatti, ha una sola possibilità: abbracciare nuovamente la visione progressista che lo ha caratterizzato nei pochi periodi di relativa stabilità della sua storia. Sappiamo benissimo, perché non siamo nati ieri, che una prospettiva del genere rientra, oggi come oggi, nel campo dell’utopia. Sappiamo anche, tuttavia, che di utopia ce n’è più che mai bisogno, soprattutto in un mondo travolto da molteplici crisi, ormai prossimo al collasso e con un clima impazzito che sta già provocando migrazioni di massa e che presto potrebbe scatenare nuove guerre legate alla sopravvivenza stessa degli esseri umani.

Il Senegal, con la sua bellezza, la sua tradizione e la sua complessità, ci sta pertanto inviando un monito. Sta dicendo, alla coscienza sopita di noi occidentali, che non possiamo continuare a concepire l’Africa come terra di conquista e che è indispensabile concederle la possibilità di svilupparsi liberamente. In caso contrario, alle rivolte spontanee faranno seguito quelle fomentate da molteplici gruppi d’interesse. Non solo: si svilupperanno ulteriori conflitti e avrà luogo una destabilizzazione complessiva che inciderà innanzitutto sulle popolazioni locali ma, a lungo andare, anche su di noi.

Se la Francia di Macron vuole ritrovare il suo posto nel mondo, il discutibile inquilino dell’Eliseo deve trovare il coraggio di compiere un gesto alla De Gaulle, facendosi carico del malessere delle sue antiche colonie e proponendo nuovi legami basati non più su una sostanziale sudditanza ma su un piano di piena parità, corredato da scambi commerciali che siano nell’interesse di entrambi. Naturalmente non lo farà mai, ignaro del fatto che queste sommosse, ancor più di quelle che si trova a fronteggiare in casa, potrebbero segnare la fine ingloriosa della sua presidenza.

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