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Nigeria, entra nel vivo il processo sulla maxi-tangente Eni-Shell

Nelle prossime settimane si concluderà a Milano il processo Eni-Shell: le due compagnie petrolifere sono accusate di aver pagato in Nigeria una maxi-tangente di un miliardo di dollari. Gli imputati sono tredici, tra i quali l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi e l’ex-ministro nigeriano Dan Etete.

Ecco una breve esposizione dei fatti: dopo lunghe trattative, nel 2011 senza gara d’appalto l’Eni e la Shell ottengono per un miliardo e trecento milioni la licenza OPL-245, che dà loro il diritto di sfruttare uno dei giacimenti petroliferi più grandi del mondo (circa 6 miliardi di barili). Ecco però una prima anomalia: invece di usare una banca nigeriana per il bonifico, come è prescritto dalle norme anticorruzione, i soldi entrano nel conto che il governo nigeriano ha presso una banca londinese, la JP Morgan, e in poche settimane il denaro si disperde in mille rivoli, chiaro indizio di corruzione.

Chi sono i protagonisti della vicenda? Prima di tutto Dan Etete, nato in Nigeria nel 1945, ministro del petrolio dal 1995 al 1998 nel governo del dittatore Sani Abacha. Quando il suo mandato di ministro sta per terminare, Etete assegna alla Malabu, una società da lui controllata insieme al figlio del generale Abacha, la licenza petrolifera OPL-245, commettendo un’azione sicuramente illegale. Nel 1999 il nuovo governo, presieduto da Olusegun Obasanjo, annulla per evidenti irregolarità la licenza rilasciata alla Malabu; Etete si rivolge allora alla magistratura e il contenzioso va avanti per molti anni.

Nel 2010 il potere passa nelle mani di Goodluck Jonathan, amico di Etete, essendo stato insegnante privato dei figli dell’ex-ministro. Il presidente nigeriano cerca una soluzione, con l’aiuto di Mohammed Bello, Attorney General del suo governo (l’Attorney General ha i poteri del ministro della giustizia e di un “super-procuratore della Repubblica”, in quanto solo lui può autorizzare l’inizio dell’azione penale in tutto il territorio nigeriano). Alla fine, grazie anche all’aiuto di numerosi mediatori, tra i quali Emeka Obi e Gianni Di Nardo, l’affare giunge a conclusione nel 2011. A un certo punto Obi accusa Etete di non aver pagato la “mediazione” pattuita e si rivolge al tribunale di Londra, che nel 2013 emana questa sentenza: Emeka Obi ha diritto a 110 milioni di euro, che il nigeriano incassa e sposta in Svizzera.

Intanto in Italia viene approvata una nuova legge, che permette ai tribunali del nostro Paese di processare presunti autori del reato di corruzione internazionale; i pubblici ufficiali stranieri, però, non sono imputabili, se hanno commesso il reato nell’esercizio delle proprie funzioni. In conformità a questa legge, il tribunale di Milano inizia un procedimento contro i vertici dell’Eni e della Shell e contro alcuni nigeriani. Nel settembre 2018 arriva la prima condanna: Gianni di Nardo ed Emeka Obi, che avevano chiesto il rito abbreviato, sono condannati a 4 anni per corruzione internazionale e alla confisca di 140 milioni di euro. Questa sentenza, pronunciata dal giudice per l’udienza preliminare Giusi Barbara, diventa presto definitiva, perché i due mediatori decidono di non ricorrere in appello.

Il processo principale, che si svolge secondo il rito ordinario, continua a Milano con una dozzina di imputati. Nel luglio 2020 la pubblica accusa, rappresentata dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e dal sostituto procuratore Sergio Spadaro, chiede 10 anni di carcere per Dan Etete, 8 anni per Claudio Descalzi, attuale amministratore delegato dell’Eni, e 8 anni anche per Paolo Scaroni, ex-amministratore delegato della più grande compagnia petrolifera italiana. Secondo l’accusa, il danno che Eni e Shell hanno fatto all’economia nigeriana è di circa 800 milioni di dollari.

Premesso che la presunzione d’innocenza vale fino alla sentenza definitiva, durante il processo sono emerse prove schiaccianti contro i vertici dell’Eni e della Shell. Come ci ha insegnato Giovanni Falcone, per arrivare alla verità bisogna seguire il flusso del denaro (“follow the money”, come dicono gli americani). La somma pagata dall’Eni e dalla Shell è di 1 miliardo e 300 milioni: 300 milioni sono effettivamente entrati nelle casse del governo nigeriano come tasse, ma circa un miliardo è stato pagato come tangente. Almeno 523 milioni sono andati a politici nigeriani, con Dan Etete che ha avuto la parte del leone. Una somma importante è tornata in Italia per arricchire illegalmente, secondo l’accusa, Scaroni, Descalzi e altri manager e mediatori italiani.

Nel settembre scorso l’avvocato Lucio Lucia, legale di parte civile che rappresenta il governo nigeriano, ha chiesto all’Eni e alla Shell un risarcimento danni da quantificare in sede civile e una provvisionale, che è immediatamente esecutiva, di 1.092 miliardi di dollari. La parola è ora agli avvocati della difesa, mentre la sentenza è prevista prima della fine dell’anno.
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