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Migranti, l’Europa e i diritti: la società del fallimento

Due episodi recenti devono indurci a riflettere sul mondo che stiamo lasciando in eredità alle nuove generazioni. La prima è sotto gli occhi di chiunque e riguarda le politiche di questo governo sui migranti. La Humanity1 e la GeoBarents bloccate nel porto di Catania, alcune persone che si gettano in mare per manifestare la propria rabbia e la propria disperazione e la definizione utilizzata dal prefetto-ministro Piantedosi che rimanda ad altre stagioni, e sappia il diretto interessato che non è un complimento, costituiscono la cartina al tornasole di una destra che ha chiarito alla perfezione i propri intenti. Quando si parla di “carico residuale” a proposito di esseri umani, infatti, l’obiettivo che si consegue, volutamente o in maniera implicita, è quello di disumanizzarli, riducendoli per l’appunto alla dimensione di merce. E quando un essere umano è trattato alla stregua di una merce, è il nostro immaginario collettivo a cambiare per sempre. Del resto, l’avevamo detto non appena si era insediato questo esecutivo: questa non è una destra europea, che ormai peraltro non esiste più a nessuna latitudine, ma una destra estrema che produrrà, se non adeguatamente contrastata, una mutazione antropologica all’interno del Paese. Personalmente, di fronte alle immagini dei migranti lasciati in mare, alle navi delle ONG scelte come bersaglio per alimentare la propria propaganda muscolare e securitaria e ai proclami altisonanti pronunciati in conferenza stampa, con uno stile assai più asciutto e burocratico, quindi ancora più efficace, rispetto alle maniere tipiche di Salvini, non vi nego di avere paura. Ho paura per ciò che è e per ciò che potrebbe essere. Ho paura per l’influenza che il pensiero e l’ideologia di Bannon continua a esercitare sulla destra mondiale. Ho paura perché comprendo perfettamente che il caso italiano è, in realtà, molto più ampio, riguardando l’intero pianeta, un Occidente in guerra con se stesso in cui oggi l’America, con ogni probabilità, si consegna nuovamente al trumpismo, in attesa del verdetto finale fra due anni. Gli errori di Biden hanno avuto un ruolo in questo disastro, ci mancherebbe altro, ma è proprio il vento che è cambiato nelle nostre società. Non abbiamo ancora capito quali e quante distorsioni abbia generato una globalizzazione senza regole, violenta, volgare ed escludente. Abbiamo lasciato che fossero solo il mondo cattolico e la sinistra cosiddetta “radicale” a battersi contro distorsioni visibili a occhio nudo. Abbiamo criminalizzato i movimenti, isolandoli e impedendo loro di entrare a far parte di partiti che ormai non rappresentano più nulla e nessuno se non le ambizioni delle loro classi dirigenti. Abbiamo lasciato che il dibattito pubblico si degradasse fino a smarrire ogni dignità, al punto che oggi assistiamo a due forme di vuoto, una più pericolosa dell’altra, con una maggioranza litigiosa e costretta a sfogarsi sugli ultimi fra gli ultimi per mascherare il fatto di avere le mani legate sui grandi temi di politica estera ed economica e un’opposizione incapace di essere tale, anzi cedevole e con ampi settori disposti a scendere a qualsivoglia compromesso con chi non ha remore ad abbandonare a se stessa la fragilità dei derelitti.
E così, ci troviamo a fare i conti con una società sempre più sola e incattivita, con una scuola sempre più svalutata e priva di risorse, con un’aggressione sistematica nei confronti di coloro che vi lavorano ma, più che mai, all’indirizzo di ragazze e ragazzi, i più deboli fra i deboli, coloro che non hanno voce perché non votano, dunque li si può insultare senza pagare dazio, specie se non si è in grado di andare al di là della prossima scadenza elettorale e non si ha alcun interesse a dar vita a un progetto politico e culturale a lungo termine. Abbiamo letto e ascoltato ogni nefandezza a danno delle nuove generazioni, fino a quando non siamo giunti al punto che nel torinese una cooperativa, Terra Mia, in collaborazione con la Fondazione CRT, ha lanciato il progetto Battiti per educare studenti e studentesse alla “scuola di fallimento”. Qualcuno potrebbe ironizzare su questa iniziativa, ma commetterebbe un clamoroso errore. Perché insegnare a perdere o, per meglio dire, ad accettare la sconfitta è il solo modo a disposizione per insegnare a vincere e a non esaltarsi troppo per la vittoria. Ne ha scritto Miriam Massone per “La Stampa” e le siamo grati per la saggezza e la misura con cui ha affrontato l’argomento. Le siamo grati soprattutto per aver raccontato il bisogno di equilibrio che oggi si avverte pressoché ovunque, la necessità di non essere sopraffatti dall’ideologia malsana, e diremmo quasi criminale, della vittoria a tutti i costi, il morbo vincista per cui non si può competere senza puntare al primo gradino del podio, per cui non esistono più solidarietà e gentilezza ma unicamente la sopraffazione degli altri. Se ci pensate, esiste un profondo legame fra i migranti abbandonati in mare e gli “scarti” della scuola per cui illustri editorialisti chiedono la bocciatura e la punizione esemplare: in entrambi i casi, si tratta di persone sfortunate, destinate a perdere e pertanto sacrificabili in nome dell’affermazione di chi è partito avanti o ha avuto la fortuna di nascere sulla sponda giusta del Mediterraneo.
Ribadisco: a me una società così fa paura perché, in nome della vittoria a prescindere, è diventata una colossale società del fallimento, in cui sono fallite tutte le istituzioni, sono venuti meno tutti i legami, si è smarrita l’idea stessa che possa esistere un’alleanza fra le varie categorie, non si parla più di autorevolezza ma di principio d’autorità, da sempre propedeutico all’affermazione dei regimi ma oggi, nel tempo dei social e della rete, ancor più ridicolo di quanto non si pensi, e soprattutto non esiste più la cooperazione e la mano tesa nei confronti dei più svantaggiati ma solamente una corsa verso il nulla, a bordo di una nave dei folli ormai andata alla deriva.
Ci si dovrebbe ricordare che ad alfabetizzare l’Italia non fu un solone con toni professorali ma un umile maestro di scuola elementare, Alberto Manzi, che sulle pagelle dei suoi alunni scriveva con un timbro: “Fa quel che può, quel che non può non fa”.
Ci si dovrebbe ricordare di Paolo Maldini, la cui bacheca personale è paragonabile a quella di una squadra di medio prestigio, il quale si è spesso definito il più grande sconfitto della storia del calcio, elencando non i suoi innumerevoli trionfi ma tutte le finali che perso, dalle quali ha saputo trarre la forza per andare avanti. Senza la beffa di Istanbul, ad esempio, lui e il suo Milan non avrebbero mai trovato l’ispirazione per tornare in finale due anni dopo e battere i Reds ad Atene, prendendosi la più dolce delle rivincite.
E ci si dovrebbe ricordare che solo chi sa cadere, poi, sa anche rialzarsi, come capì Roberto Baggio, un altro grandissimo campione, quando si rese conto che la gente lo amava non malgrado l’errore dal dischetto nel catino sciagurato di Pasadena ma proprio per quello sbaglio che lo aveva reso umano agli occhi di molti. La sua vittoria più grande, e questo Roby lo sa bene, a differenza di certi commentatori, non è stata sul campo ma fuori: è stato l’amore della gente, che dura tuttora, mentre il Pallone d’oro, per quanto più che meritato, ormai è solo un prestigioso cimelio esposto in una vetrina.
Ribadisco: a me fa paura una scuola che esclude e irride i più fragili, in cui si propone di bocciare senza pietà chi è rimasto indietro, in cui si incitano gli insegnanti a non preoccuparsi delle condizioni di partenza di ciascuno, in cui si antepongono i voti a ogni altra valutazione, in cui dei demenziali quiz a crocette vengono fatti assurgere a totem, in cui si parla di merito senza associarlo ai concetti di uguaglianza e ascensore sociale, in cui, sostanzialmente, si pongono le basi per l’accettazione del totalitarismo. Mi fa paura perché mi sembra di essere tornati indietro di cent’anni, ai balilla e ai salti nel cerchio di fuoco, oggi sostituiti dall’esaltazione smodata di affermazioni individuali, quasi sempre dovute alla ricchezza familiare e a una concezione dell’esistenza che è l’opposto di ogni principio di umanità.
Siamo diventati un Paese in cui ognuno gioca per conto suo, vogliamo avere tutti il numero 10 sulla schiena e non accettiamo più che in squadra ci sia pure un gregario, meno che mai di esserlo noi stessi, ma così non si vince nulla, non si ottiene alcun risultato, non si va da nessuna parte. L’individualismo, al pari dell’indifferenza, è il male assoluto della nostra società, e la tristezza di ragazze e ragazzi che non hanno più il coraggio di affrontare un’interrogazione orale perché temono il giudizio dei compagni, ancor prima di quello dell’insegnante, ne è la conseguenza lampante. E allora bisogna guardare negli occhi questa gioventù smarrita e infonderle coraggio. Una volta, l’amica Cecilia Di Cerbo, splendida professoressa, mi parlò della tecnica del caviardage, utilizzata anche all’interno del progetto Battiti. Consiste nello strappare alcune pagine di un romanzo, distribuirle agli alunni e far selezionare loro le parole che più li colpiscono e li emozionano, cancellando poi le altre e arricchendo, se vogliono, il tutto con un disegno. Ne vengono fuori poesie bellissime e pensieri complessi, e Tina Festa, che ha inventato questa tecnica, merita un plauso particolare.
Temo, tuttavia, che fuori da questa realtà di resistenti, di docenti che amano la scuola e, più che mai, chi la frequenta, sia rimasto solo il deserto. Attenzione: il fascismo oggi non ha bisogno di marciare su Roma per insediarsi e, a dire il vero, anche un secolo fa il 28 ottobre costituì soltanto l’apice di un processo di disgregazione sociale e conseguente richiesta di legge, ordine e uomo forte che era in atto ormai da anni. Quando si arriva a considerare chi è nato in paesi che noi occidentali abbiamo depredato per secoli un “carico residuale”, solo perché vorrebbe trovare da noi accoglienza, integrazione e arrivo a dire amore, l’Italia della Costituzione,  di fatto, non esiste più. E quando ragazze e ragazzi arrivano a considerare un brutto voto, o comunque una valutazione inferiore alle proprie aspettative, una tragedia, li abbiamo condannati a un destino di infelicità. O, peggio ancora, li abbiamo resi belve, pronti a calpestare il prossimo pur di avere un numero più alto sulla pagella, senza rendersi conto che la scuola, se prima non ti ha insegnato a camminare insieme agli altri, al massimo ti ha consegnato un inutile pezzo di carta.
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