Lo sapevamo da decenni che, prima o poi, la crisi in Africa sarebbe deflagrata. E con il deflagrare della crisi stiamo assistendo al progressivo rovesciamento di un Occidente incapace di fare i conti sia con il proprio passato coloniale sia con il proprio presente da potenza in disarmo. La regione del Sahel, interessata negli ultimi anni da un susseguirsi di colpi di Stato, che hanno sconvolto prima il Mali e il Burkina Faso e ora minacciano il Niger, è cruciale per gli equilibri mondiali, e di questo si dovrebbe parlare ovunque, essendo in ballo il futuro stesso del Vecchio Continente e dei suoi sbandierati valori. Il punto è che il declino francese, accentuato dell’inadeguatezza di Macron ma precedente al suo arrivo all’Eliseo, non si manifesta solo nelle tensioni di piazza che attraversano le banlieue e diciamo tutta la Francia ormai da anni. Risiede soprattutto al di fuori dei suoi confini, nelle radici storiche di una nazione che ha smarrito il proprio posto nel mondo e non è in grado di esercitare un ruolo credibile sullo scacchiere globale, in una fase storica nella quale ci sarebbe più che mai bisogno della patria che fu dei lumi e degli ideali democratici e di ribellione alla tirannia. Ci vorrebbe un De Gaulle, tanto per esser chiari. Certamente, non era un uomo di sinistra; certamente, era un nazionalista, con venature tendenti al sovranismo; altrettanto certamente, tuttavia, è la personalità che seppe traghettare un paese allo sbando dal disastro della Quarta Repubblica alla stabilità della Quinta, ponendo fine alla Guerra d’Algeria e riuscendo a salvaguardare la Françafrique pur non esercitando più il potere coloniale di un tempo. Seppe, in poche parole, compiere una costante azione di “soft power”, mantenendo legami strettissimi con stati che tuttora dipendono in larga misura dalle decisioni di Parigi ma che, a differenza dei tempi del “Général”, non ne riconoscono più l’autorità.
Abbiamo tirato troppo la corda con l’Africa. Vale per i francesi e per l’Occidente nel suo insieme. Del resto, sono almeno tre decenni che si parla di aiuti sostanziali, cooperazione allo sviluppo, fine dello strapotere delle multinazionali e dell’accaparramento delle terre, potenziamento delle strutture locali e diffusione di una vera democrazia, che preveda la liberazione di quelle zone, ricchissime di risorse (ad esempio l’uranio, se parliamo del Niger) e dunque assai ambite dalla nostra prepotenza, da tiranni che rispondono unicamente ai nostri interessi, non certo a quelli di popoli ridotti alla miseria e costretti a fuggire da noi per provare a garantire un futuro migliore a se stessi e alla propria discendenza.
La verità è che la fortezza Europa, egemonizzata da Orbán e da un nazionalismo cieco e insensato, in preda a una furia bellicista e con una sinistra che ha smesso di essere tale e si è acconciata, complessivamente, a imitare le peggiori pratiche della destra in materia di respingimenti, politiche di chiusura delle frontiere e accordi eticamente assai discutibili con ras di varia natura, quest’Europa inesistente e incapace di difendere qualsivoglia diritto umano ha fallito. Per questo, anche se la questione è immensamente più complessa e non riassumibile in poche righe, Russia e Cina, che non sono certo esempi di democrazia, sono oggi acclamate come nazioni liberatrici. Per questo, quando il generale Abdourahamane Tchiani ha attuato il golpe ai danni di Mohamed Bazoum, una folla di dimostranti si è radunata sotto l’ambasciata francese a Niamey, capitale del Niger, sventolando bandiere russe. Per questo, la penetrazione cinese sta procedendo a passi da gigante. Per questo, persino degli spregevoli tagliagole come i miliziani della Wagner riscuotono consensi, venendo percepiti dagli indigeni se non come dei salvatori, comunque come il male minore rispetto a un Occidente che sembra rimasto fermo alla Conferenza di Berlino del 1884-85, in cui le grandi nazioni europee si accordarono sostanzialmente per dar vita a quella che è stata ribattezzata “corsa per l’Africa”.
Avevamo sperato, ai tempi di De Gaulle e prima del dilagare dei colpi di Stato figli della Guerra fredda, che la decolonizzazione dell’Africa potesse essere effettiva. Poi abbiamo sperato che l’Occidente, vinta temporaneamente la sua sfida con l’Orso russo, decidesse di intraprendere la via umanitaria in un continente che meriterebbe non solo la nostra attenzione ma, più che mai, il nostro risarcimento, avendolo depredato in maniera meschina per oltre un secolo. Oggi ci troviamo, invece, a fare i conti con stati europei che non contano quasi più nulla, ex potenze coloniali in disarmo, con un’emergenza demografica allarmante comune a tutte, che pretendono ancora di dare le carte in un pianeta multipolare e al cospetto di nuovi equilibri economici e geo-politici che non possono essere scalfiti contrapponendo il nostro vecchio imperialismo a quello delle potenze in ascesa.
Se papa Francesco, oltre a ricevere tanti ipocriti elogi, venisse ascoltato veramente, si capirebbe che l’Africa dovrebbe diventare il continente cruciale per ogni ragionamento sul futuro, il crocevia di una pace universale che non può prescindere da un reciproco riconoscimento e dalla fine di ogni forma di sfruttamento. Utopia, lo sappiamo: conosciamo la realtà e i rapporti di forza e sappiamo perfettamente che nessun governante contemporaneo ha la statura di un De Gaulle né la saggezza di rinunciare a qualcosa in nome del bene comune, compreso quello della sua gente. Ma sappiamo anche che nel Sahel, snodo fondamentale sia sul piano della lotta al jihadismo che nel contrasto alla tratta di esseri umani, si gioca la partita dalla quale dipendono i futuri assetti politici, e di conseguenza democratici, del Vecchio Continente. Qualora Macron dovesse sbagliare anche in questo contesto, non ci sarebbe più alcun freno all’ascesa degli etnonazionalismi che già scuotono la Francia, minacciandone la tenuta complessiva. E chiunque conosca un minimo la storia europea, sa che se crolla la Francia, crolla la civiltà. Perché quei tre valori – libertà, uguaglianza e fratellanza – costituiscono il senso stesso del nostro stare insieme. Ammainate quelle bandiere, rimane solo la barbarie.
Roberto Bertoni