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I rifugiati burundesi all’estero tra sogno e minaccia di rimpatrio

La complessità del rimpatrio.

Quella dei rifugiati è una condizione di estrema vulnerabilità: non partono mai volontariamente, ma vi sono costretti a causa di forti pressioni, cioè per sfuggire alla violenza e per mettersi in salvo. Sebbene abbiano la forza di fuggire, il loro destino resta incerto e precario, perché spesso trovano riparo in contesti altrettanto fragili sul piano politico ed economico, dipendendo dagli aiuti esterni e godendo di diritti civili limitati. Com’è intuibile, la loro più grande speranza è di poter tornare a casa, sebbene questo non accada sempre e, comunque, non in tempi brevi. A seconda delle circostanze, la gran parte di loro decide di rientrare, ma non di rado si trova a dover ricominciare daccapo, perché la casa e la terra sono state nel frattempo distrutte o occupate da altri, per cui sorgono ulteriori conflitti o controversie giudiziarie che, a loro volta, si protraggono per anni perché mancano titoli di proprietà e archivi dove recuperare i documenti.

Nonostante ciò, il ritorno è l’obiettivo perseguito dalle agenzie internazionali come l’UNHCR, la quale sostiene programmi volti ad accompagnare i rifugiati nella loro scelta, che sia il più consapevole e libera possibile, mettendo a disposizione informazioni aggiornate sulla situazione nel paese natale, oltre a consigli giuridici; talvolta l’Agenzia organizza delle visite «go-and-see», che danno la possibilità ai rifugiati di farsi un’idea della situazione nella regione circostante.

Ma i rifugiati hanno anche un’altra fragilità che rende il loro “ritorno volontario” più difficile, ossia l’essere utilizzati dai paesi ospitanti come strumento di pressione, sia in chiave interna con retoriche nazionaliste e xenofobe, sia in chiave internazionale per tensioni più o meno pregresse tra stati confinanti o per polemiche nei confronti di determinate ong e agenzie delle Nazioni Unite. Con la crisi politico-sociale esplosa nella primavera del 2015 in Burundi, oltre 400mila abitanti del paese, su una popolazione complessiva di circa 11 milioni persone, hanno lasciato la propria terra, chiedendo asilo nei paesi confinanti, tutti della regione africana dei Grandi Laghi. Da allora la loro vita è sospesa, ma ultimamente si registrano varie tensioni ed erosioni dei rapporti, soprattutto a livello politico internazionale.

I rifugiati burundesi in Rwanda e in Tanzania.

Già 5 anni fa, nel febbraio del 2016, in risposta ad alcune accuse mosse dal regime burundese di Pierre Nkurunziza, il governo rwandese, attraverso la sua ministra degli Esteri Louise Mushikiwabo, minacciò di mandare le decine di migliaia di rifugiati burundesi presenti sul suo territorio in altri paesi ospitanti. A quelle dichiarazioni il governo del Burundi rispose organizzando una grande manifestazione di piazza a Bujumbura per denunciare gli «atti di aggressione» del Rwanda, accusato di addestrare i ribelli armati.

Più di recente, nell’agosto 2019, come raccontato da Riccardo Noury su “Focus on Africa”, venne firmato un accordo bilaterale tra Tanzania e Burundi per favorire il rimpatrio dei rifugiati burundesi «con o senza il consenso degli interessati». Si trattava di un accordo illegale, che violava il principio di non respingimento e che prevedeva il rimpatrio in un paese nel quale, secondo le Nazioni Unite, venivano commessi crimini contro l’umanità. I leader di entrambe le nazioni, il tanzaniano Magufuli e il burundese Nkurunziza, sono morti negli ultimi mesi per sospette complicanze dovute al Covid-19, sebbene le versioni ufficiali lo neghino, per cui ora il contesto potrebbe cambiare e, con esso, anche la situazione dei rifugiati. Tuttavia, le notizie di cronaca continuano a far preoccupare: nel novembre 2020 “Human Rights Watch” ha denunciato il coinvolgimento delle forze di sicurezza della Tanzania in rapimenti, riscatti, torture e rimpatri forzati in Burundi, così come accusa anche il gruppo di giornalisti in esilio “SOS Media Burundi”, che il 24 marzo scorso ha riportato testimonianze simili, raccolte soprattutto a Nyarugusu, in Tanzania, dove il presidente del campo profughi, nonché rappresentante del governo, ha esplicitamente detto che «è giunto il momento di tornare a casa per i burundesi». La dichiarazione è stata affissa nei luoghi di assemblea e chiede ai rifugiati di registrarsi in massa per il ritorno volontario nel loro paese. Inoltre, il messaggio è rivolto alle ong, che vengono invitate a ridurre il livello di intervento, ossia i servizi che forniscono ai rifugiati, come ad esempio l’istruzione. Naturalmente, questo ha provocato molte preoccupazioni, per cui i rifugiati chiedono aiuto all’UNHCR.

I rifugiati burundesi in Kenya e in RDC.

Nelle ultime due settimane sono arrivate notizie simili anche da altri campi profughi, in altri paesi della regione. Il Kenya, ad esempio, ha emesso un vero e proprio ultimatum all’UNHCR, minacciando di «deportare i rifugiati dei campi di Dadaab e Kakuma in due settimane». In Kenya ci sono oltre 500mila rifugiati, di cui 13mila burundesi, e nei campi indicati il governo dice di aver registrato un aumento del rischio terroristico. Come ha dichiarato il ministero degli Interni kenyota, «non c’è spazio per la negoziazione, dobbiamo trovare un equilibrio tra gli obblighi internazionali del Kenya e i suoi doveri interni; abbiamo la responsabilità nazionale di proteggere il Kenya». I rifugiati contattati dal quotidiano “Itara Burundi” temono per la loro incolumità e ritengono che questa iniziativa del governo kenyota sia legato alla recente visita del presidente del partito burundese al governo da oltre 15 anni.

Infine, nella Repubblica Democratica del Congo dall’inizio di quest’anno oltre duemila rifugiati burundesi hanno espresso la volontà di tornare nel loro paese, registrandosi presso il campo di Lusenda (provincia del Sud Kivu), dove ci sono oltre 29mila burundesi fuggiti nel 2015. Si tratta di un campo composto da 50 villaggi e le persone contattate da “SOS Média Burundi” affermano di voler tornare «per essere al sicuro dalle cattive condizioni di vita che abbiamo qui». La gran parte, comunque, non intende spostarsi, sia perché ancora seriamente preoccupata per la propria incolumità, una volta rientrati in Burundi, sia perché intanto hanno avviato attività che generano reddito.

Casa è una speranza.

Quel che sappiamo da questa varietà di casi è una verità banale, ma profonda: nessun rifugiato smette di pensare alla sua casa e questo lo costringe a vivere in un continuo e costante stato di sospensione, sebbene in qualche rarissimo caso possiamo raccontare storie di straordinario successo. Ad esempio, nell’ottobre 2015, appena dopo aver lasciato il suo paese per chiedere asilo in Canada, la poetessa e attivista burundese Ketty Nivyabandi scrisse un tweet intitolato “Home”, in cui diceva che «casa [è] uno spettacolo distante e sbiadito, le mie mani cercano il vento per un ultimo odore; ogni notte ti respiro e vivo». Da allora non ha mai smesso di occuparsi della difesa dei diritti umani nel suo paese e ovunque, diventando alla fine del 2020 Secretary General di Amnesty International Canada.

 

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