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Human Border, le storie e la lotta dalla frontiera del Sahara Occidentale

Il popolo Saharawi si è fidato delle Nazioni Unite e della promessa di organizzare un referendum per l’autogoverno: una fiducia che possiamo definire, in realtà, ingenuità”. Aicha Babait ha 26 anni: è un’attivista per il diritto all’autodeterminazione del suo popolo. Il popolo del Sahara: il popolo Saharawi. È sua una delle voci raccolte nello speciale di Terre di Frontiera sul Sahara Occidentale, dal titolo Human Border: un viaggio attraverso una delle frontiere globali nelle quali l’umanità vede rispecchiate le proprie, profonde contraddizioni. Prima di tutto culturali e politiche.

Contraddizioni messe a nudo da esperienze e testimonianze come quella di Aicha, che racconta la paura per una guerra definita inevitabile dal suo coetaneo Hamudi Faraye: 28 anni, reporter di Sahara Press Service dal campo profughi di Tindouf, in Algeria. Loro sono i volti, i nomi di una generazione cresciuta nella cattività dell’attesa. Nel 1991, il popolo Saharawi ha rinunciato alla violenza delle armi, per abbracciare un linguaggio di pace attraverso cui costruire una via democratica all’indipendenza. In quell’anno, le Nazioni Unite si sono fatte garanti della celebrazione, entro un decennio, di un referendum per la soluzione dello statuto del Sahara Occidentale. L’estremo lembo a ovest del Sahara che, fin dal 1975, il popolo Saharawi si vede conteso dal Marocco per il controllo sulle sue risorse ittiche e le miniere di fosfato.

Di anni, da quel 1991, ne sono trascorsi quasi 30 e del referendum nemmeno l’ombra. A fine ottobre 2020, per uscire dallo stallo, i saharawi hanno ripreso a manifestare contro l’illegittima realizzazione di una strada asfaltata che collega i territori occupati del Sahara Occidentale alla Mauritania, violando la zona cuscinetto di Guergerat. I manifestanti hanno bloccato la circolazione dei mezzi pesanti marocchini proprio al valico di Guerguerat: un’azione che ha scatenato la reazione militare del regno alawide e la fine, di fatto, del cessate il fuoco.

Chi, come il cooperante Claudio Cantù ha lavorato con i saharawi per portare loro la solidarietà internazionale, dell’Italia e dell’Emilia-Romagna in particolare, oggi si trova a dover fare i conti con il rischio, grande e irreparabile, che anni di lavoro per la pace siano risucchiati in una spirale senza uscita di violenza. Prima nei campi profughi e poi nei territori liberati, Claudio Cantù racconta, di suo pugno, l’incontro con un popolo che ha scelto di fondare il proprio futuro indipendente sul bene primario della salute e sul tassello imprescindibile della formazione e dell’educazione dei più piccoli e dei giovani. Quelle generazioni cresciute nella cattività dell’attesa e che oggi tornano, malgrado la paura, a imbracciare le armi perché traditi dalla comunità internazionale. Lo denuncia Antonella Napoli, mettendo a nudo l’ignavia delle Nazioni Unite e dell’Europa, inermi di fronte agli interessi economici e alle politiche del ricatto su cui il Marocco fonda le proprie relazioni esterne.

Ma nessuno, come ricorda Hamudi spiegandoci cosa voglia dire essere un Saharawi, vuole la guerra o immagina di dover sacrificare la propria vita sulla linea di un fronte. È per questo che un impegno per la pace nel Sahara Occidentale è urgente e chiama in causa tutti. A cominciare dall’Italia. Un obiettivo dal quale è nata la collaborazione tra Terre di Frontiera e Focus on Africa. Prima nella forma di un incontro che, in occasione della Giornata Mondiale per i diritti umani, ha messo al centro i tanti confini che oggi dilaniano il Mediterraneo. Poi l’iniziativa di un appello alla pace per chiedere al Paese di prendere posizione a favore di una soluzione politica per il referendum promesso. Perché l’estremo lembo occidentale del più grande deserto del mondo, non si trasformi in una delle tante, troppe frontiere di guerra dimenticate.

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