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Primavere arabe 10 anni dopo, la protesta di Bouazizi e i sogni infranti delle rivolte del 2011

Era il 17 dicembre 2010 quando davanti al governatorato di Sidi Bouzid, nel cuore della Tunisia rurale, Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante, si diede fuoco per protesta contro miseria, corruzione e vessazioni della polizia.
Fu la miccia che scatenò la rivolta popolare in Tunisia. E non solo.
Quel gesto di protesta così radicale scosse tutto il Nord Africa e parte del Medio Oriente.
”Me ne vado, mamma, perdonami, i rimproveri sono inutili, mi sono perduto lungo un cammino che non riesco a controllare, perdonami se ti ho disobbedito, rivolgimenti i tuoi rimproveri alla nostra epoca, non a me, io me ne vado e la mia partenza è senza ritorno, io non ne posso più di piangere senza lacrime, i rimproveri sono inutili in quest’epoca crudele, su questa terra degli uomini, io sono stanco e non mi ricordo niente del passato, me ne vado chiedendomi se la mia partenza mi aiuterà a dimenticare.”
Il suo ultimo messaggio su Facebook rivolto a sua madre arrivò al mondo intero.
A 26 anni Mohamed, che viveva con il commercio di frutta e legumi, dopo l’ennesimo rifiuto di vedersi riconsegnato il carretto su cui vendeva la sua merce, dopo il sequestro qualche giorno prima da parte della polizia municipale perché sprovvisto delle necessarie autorizzazioni, decise di immolarsi col fuoco di fronte alla Prefettura.
Bouazizi morì poi il 4 gennaio 2011.
Oggi, a dieci anni da quei fatti e da quello che fu l’inizio delle cosiddette primavere arabe, andando a ritroso alla storia dell’ultimo decennio fino ai legami più antichi che legano il nostro paese, l’Italia, con la l’altra sponda del Mediterraneo, è doverosa una riflessione su cosa abbia prodotto quell’onda di rivolte.
A cominciare proprio dalla Tunisia, il paese da cui tutto è partito e di fatto è oggi l’unica realtà  araba passata con successo alla democrazia.
Come ha rilevato una recente analisi del centro di ricerca americano “Brooking Institution”, gli altri Paesi interessati dalle proteste contro i rispettivi regimi, sono tornati a un forte potere autoritario o hanno visto scatenarsi devastanti guerre civili.
Conflitti interni e autocrati hanno frenato il sogno della democrazia inseguito da migliaia di giovani dal 2011, un effetto domino rivoluzionario che si è esteso dalla Tunisia al Bahrein, dal Sudan allo Yemen.
A cominciare da quest’ultimo Paese dell’area del Golfo, l’onda delle rivolte ha lasciato solo macerie e morte, con oltre 150.000 vittime del conflitto tra forze governative yemenite e ribelli houti e altrettante per le conseguenze. In Siria, i morti sono più di 380 mila e milioni di profughi in Siria. E poi, due rivoluzioni di cui un colpo di Stato in Egitto e tre guerre civili in Libia. Il tutto a causa di governi resi sempre più repressivi dall’instabilità crescente.
Un bilancio oltremodo desolante.
I fattori socio-economici e politici che portarono alla ‘Primavera araba’ continuano a suscitare malcontento  nella regione, come dimostrano le nuove proteste in Algeria, Iraq e Sudan.
Paesi dove gli attivisti hanno tratto insegnamento dagli errori del passato adottando tattiche alternative e costringendo chi era al potere a riluttanti ma inevitabili concessioni.
Per contro, anche i leader arabi si sono “adattati” e contrastano gli appelli al cambiamento con “mirate campagne di propaganda e giri di vite repressivi.
Il tutto in un quadro che include anche altri tasselli come il Bahrein, dove la triennale rivolta sciita fu domata dalla dinastia sunnita con l’appoggio di Riad, e grandi disegni geopolitici: il principale è stato quello dell’allora presidente americano premio Nobel per la pace Barack Obama che ha contribuito ad innescare lo sconvolgimento seguendo il sogno – trasformatosi in incubo – di paracadutare la democrazia sul sostrato islamico delle società arabe.
Situazioni rese stabili e compresse per decenni da autocrati ex-militari come in Egitto o tutto sommato laici come in Tunisia, Libia e Siria. Si tratta delle stesse radici islamiche che dopo la caduta del presidente-rais Hosni Mubarak portarono in Egitto, il più popoloso Paese mediorientale, a una controversa vittoria elettorale dei Fratelli musulmani di Mohamed Morsi. Contro il suo esecutivo però nel 2013 scesero in strada più di 30 milioni di persone ottenendone la cacciata dopo solo un anno di governo: un vulnus che ancora condiziona il Cairo del presidente ex-generale Abdel Fattah al-Sisi e il suo rapporto con il dissenso, draconiano anche per reazione alle dichiarate ambizioni della Fratellanza a un nuovo “cambio di regime”.
Speranze di una spallata in queste settimane alimentate dall’imminente ingresso alla Casa Bianca di Joe Biden, democratico come Obama.
L’effetto-domino partito il 17 dicembre 2010 da Tunisi, saltando o risparmiando regni come Marocco e Giordania, è stato fermato dalla zampa dell’orso russo in Siria: dopo aver perso gran parte dell’Ucraina a nord, Mosca non è stata disposta a cedere anche Damasco a sud e con essa il porto siriano di Tartus, l’unica installazione marittima russa nel Mediterraneo. Ne è nato un massacro seguito in diretta da un’opinione pubblica occidentale invaghita dei freedom fighters encomiabilmente lanciati contro il quarantennale pugno di ferro della famiglia Assad ma, a ben vedere, innervati da jihadisti anche ufficialmente legati ai terroristi di al-Qaida come quelli del Fronte al-Nusra.
Una delle tante contraddizioni di un evento epocale che sta ancora producendo effetti in questa parte del mondo e che non permette di trarre una sintesi del quadro attuale, tanto meno intuire il futuro che lo attende. Le primavere arabe incompiute, che poi chiamarle ‘arabe’ è oltremodo riduttivo, non hanno ancora esaurito il loro percorso.

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