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Il grido disperato della madre di Joseph specchio dell’ipocrisia dell’Europa

Joseph aveva 6 mesi, la sua vita è stata inghiottita dalle acque del Mediterraneo. Lo straziante grido della mamma nelle drammatiche fasi del salvataggio di Open Arms, dopo il naufragio di un gommone a 30 miglia dalla Libia, e quel minuscolo corpicino freddo e inerte che giace ora nell’obitorio di Lampedusa è tutto ciò che resta a testimonianza di questa ennesima tragedia del mare.
Il piccolo, recuperato vivo dai soccorritori, è morto alcune ore dopo a bordo della nave della ong spagnola al momento ancorata davanti alle coste dell’isola siciliana dove sperano di poter attraccare. Sul ponte sono assiepate 259 persone e 5 cadaveri.
Quello del neonato che non è riuscito a sopravvivere al naufragio è stato trasportato ieri da un elicottero della guardia costiera insieme alla madre a Lampedusa, dove sarà seppellito.
La situazione nel Mediterraneo centrale è ormai insostenibile. Le segnalazioni di piccole e grandi imbarcazioni in difficoltà che arrivano ai pochi volontari ancora impegnati nei salvataggi sono sempre più numerose e urgenti. E la conta dei morti continua.
Solo un meccanismo di ricerca e soccorso europeo che abbia come priorità la difesa della vita e dei diritti può fermare tutto questo.
Come racconta un portavoce di Open Arms, non ci sono nel Mediterraneo altre organizzazioni che possano portare soccorso ai migranti coinvolti nei naufragi.
Dopo essere partiti dal porto di Barcellona il 4 novembre per la loro settantottesima missione di ricerca e soccorso insieme ad Emergency, si sono trovati a dover operare in un contesto difficile e drammatico senza essere in grado di rispondere a tutte le richieste di aiuto di chi era in difficoltà e aveva necessità di essere salvato.
Nessun altro assetto di salvataggio, né umanitario né governativo, è presente in quello spazio di mare oltre loro. Tra il 10 e l’11 di novembre Open Arms ha effettuato 3 operazioni di soccorso. Ma solo la morte di Joseph ha riacceso nelle ultime 24 ore i riflettori sulla drammatica situazione al largo delle nostre coste, risvegliando l’indignazione collettiva.
Un’indignazione ipocrita e inaccettabile, la stessa di quando cinque anni fa in acque libiche annegò il piccolo Aylan Curdi. Con lui a bordo di un vecchio peschereccio affondato nell’estate del 2015 c’era tutta la sua famiglia. Quel giorno con Aylan morirono la madre e il fratellino di cinque anni. Unico superstite il padre, siriano, che non ha mai ottenuto lo status di rifugiato e che è tornato a Kobane, la città natale da cui lui e i suoi cari erano fuggiti dal terrore della guerra e dell’avanzata dello Stato islamico.
La foto del corpicino di Aylan, riverso a faccia in giù sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, costrinse il mondo ad alzare lo sguardo sul dramma dei profughi che rischiano quotidianamente la vita pur di raggiungere un luogo che possa garantirgli un futuro, la speranza di una vita normale, lontano dagli orrori e dalle sofferenze delle loro terre. Ma l’immagine di quel bimbo senza vita, finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, oggi è un ricordo sbiadito. Come lo saranno le grida disperate della madre di un bambino ucciso dall’egoismo di un’Europa inadeguata che non è riuscita ancora a trovare una soluzione umana al fenomeno dell’immigrazione. E le dichiarazioni, gli impegni scaturiti dalla vergogna per quel simbolo divenuto in poche ore l’emblema universale di una tragedia che aveva ormai travalicato il più terribile degli immaginari, sono solo carta straccia. Parole e ipocrisie cancellate dall’accordo sulla gestione dei migranti sottoscritto dai 28 stati europei a Bruxelles con la Turchia durante l’emergenza del conflitto siriano.
Dopo la costruzione di nuovi muri, dall’Ungheria alla Macedonia, la chiusura della rotta balcanica, l’invio di navi da guerra per pattugliare l’Egeo e riportare indietro tutti quelli pronti ad attraversare quel tratto di mare, l’Europa ha fatto un patto col diavolo, pur di difendere i propri confini.
Ma i leader europei fingono di non sapere che nonostante tutti i loro sforzi non riusciranno mai a tenere lontane le migliaia e migliaia di profughi che, aiutati da mercanti di vite umane senza scrupoli, troveranno altre vie per raggiungere le coste aldilà del Mediterraneo. Non vedremo più famiglie di siriani, iracheni, afgani camminare attraverso le strade lungo i confini dell’Unione europea, ma abbiano ricominciato a contare i morti annegati. E moriranno ancora in molti cercando di raggiungere il continente che ha basato la propria costituzione sul rispetto della dignità umana e su principi come la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e lo stato di diritto.
Valori che dovrebbero essere comuni agli Stati membri e che per i padri costituenti posero come pilastri di una società fondata sul pluralismo, sulla non discriminazione, sulla tolleranza, sulla giustizia e sulla solidarietà.
Oggi l’Europa tradisce, rinnega, quei principi.
Cinque anni dopo la morte di Aylan, quella foto di un bimbo di tre anni a faccia in giù su una spiaggia che ci aveva dato l’opportunità di ‘restare umani’, è il simbolo della nostra ipocrisia e del fallimento dell’Europa.

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