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Etiopia: la stretta sui media. Chi controlla il controllore?

Il governo etiope ha emesso nuove disposizioni in merito allo stato d’emergenza in atto, riportate anche dall’Ethiopian Broadcasting Corporation nella giornata di giovedì.

La nota (al punto 1) sottolinea come nessuno possa indossare alcuna uniforme delle forze di sicurezza se non appartenente effettivamente ad esse (l’organizzazione delle ronde composte da civili è stata delegata alle forze di polizia) e nel punto 3 come il governo metterà in campo ogni sforzo per scovare e punire chiunque, approfittando dello stato di emergenza, lavori alla creazione di un governo di transizione o a qualsiasi altra forma di governo che violi la costituzione nazionale. Un punto sul quale potremmo aprire un capitolo a parte, viste le notizie (da vagliare integralmente) giunte alle redazioni di tutto il mondo, dell’incontro virtuale tenutosi tra alcuni diplomatici occidentali (in carica o meno) e Berhane Gebre-Christos, leader del Tplf, ex ministro degli Esteri etiope e portavoce per gli affari esteri del fronte, con il presunto obiettivo di organizzare ed indicare un governo di transizione post Abiy.

Sono però i punti 2 e 3 che sono al centro del nostro interesse, non fosse altro per il mestiere che svolgiamo. Il primo dei due proibisce la diffusione di ogni informazione sulle manovre militari o aggiornamenti dal fronte se non autorizzati dalle autorità civili e militari; la disposizione è valida sicuramente per i combattenti al fronte, che attraverso i sociale e forse inconsapevolmente, aggiornano su eventuali progressi o nuove manovre, ma è poco chiaro quali siano per i media, che accedendo a tali informazioni costruiscono la loro narrazione del conflitto, le conseguenze  della pubblicazione di informazioni non autorizzate.

A tal proposito, la portavoce del Primo Ministro, Billene Aster Seyoum ha rilasciato a Reuters tale dichiarazione: “The state of emergency prohibits unauthorized entities from disseminating activities from the front via various channels including media”.

Nessuno spazio ai fraintendimenti, quindi.

Il secondo punto è invece rivolto prettamente alla stampa, nazionale ed internazionale. Un monito piuttosto chiaro sulla diffusione incontrollata di notizie che potrebbero sconvolgere il percorso ad ostacoli verso “la salvezza del paese”. A nessuno, si aggiunge, verrà permesso di ostacolare, né attraverso azioni, né (e qui è il punto) attraverso pensieri od opinioni, questa corsa alla salvezza del paese. L’utilizzo della libertà di parola, attraverso media stranieri, che risulti direttamente o indirettamente da supporto a gruppi terroristici potrà essere perseguito. Le forze di sicurezza – si conclude- agiranno contro tutti coloro che non presteranno attenzione.

Uno stato sovrano ha il diritto di porre in essere ogni azione risulti lecita per salvaguardare l’integrità del paese (nei limiti del diritto), ma – e questo è il centro del dibattito- la sospensione del diritto alla libertà di parola pone sempre seri interrogativi, sia etici che strategici, nonché un vuoto spesso colmato da notizie false, non verificate, distorte.

Sin dall’inizio del conflitto vi è stata una grande difficoltà nel reperimento di fonti e spesso tale difficoltà è stata superata solo da quella della loro verifica. Si sono rincorse notizie poi miseramente smentite, una miscela di informazioni veicolate da pochissimi uomini sul campo, andatisi poi ad azzerare per la chiusura dei confini e la dismissione della rete internet e delle linee di comunicazione; news successivamente veicolate in gran parte attraverso i social da utenti non sempre attendibili. A volte da noti analisti, storici o giornalisti, altre volte semplici utenti e cittadini, molte volte dai combattenti, quasi sempre dagli uffici stampa e di comunicazione del Tplf e da quelli governativi o vicini al governo.

Sotto accusa a tal proposito vi sono anche gli algoritmi utilizzati da Facebook che secondo Frances Haugen, una ex data scientist di Facebook “avrebbero parte della responsabilità per il crescente conflitto in Etiopia, che hanno letteralmente favorito la sempre più crescente violenza tra etnie” nel paese, come dichiarato più volte ad una commissione del Senato statunitense.

La mancanza di notizie indipendenti, che non siano filtrate dai due fronti della guerra, ci pone dinanzi uno scenario non nuovo ma di certo grave. A difficoltà si aggiungeranno difficoltà, il giro di vite su giornalisti, media e collaboratori è pronto e verosimile.

Il governo etiope ha richiesto ieri agli Usa, attraverso il Ministro Kebede Dessisa, di non diffondere false notizie sul paese (il riferimento è alla nota della Segreteria di Stato Usa che metteva in guardia i propri cittadini nel paese da eventuali attacchi terroristici, definiti plausibili) e nel paese si fa sempre più marcata una polarizzazione politica tanto che il confronto ha lasciato il passo alla violenza verbale, alla diffusione di false notizie, a notizie veicolate principalmente dalla propaganda politica, alla diffusione intenzionale di notizie distorte allo scopo di influenzare le azioni e le scelte dell’opinione pubblica.

Nel 2018 il Primo Ministro, Abiy Ahmed mise in campo profonde riforme strutturali dei media, rilasciando decine di giornalisti sotto custodia, eliminando il bando posto su oltre 250 media, abrogando alcune leggi e norme sui giornalisti molto criticate dall’opinione pubblica.

Tuttavia dall’inizio del conflitto, come riportato da alcune organizzazioni per i diritti umani, come Amnesty International o Reporters Sans Frontières, almeno 38 giornalisti sono finiti in carcere. Interpellato da Reuters in merito agli arresti di operatori dei media del Maggio scorso, l’Ente di controllo sui media etiope ha sottolineato che “la libertà di espressione e la protezione della stampa sono valori sacri sanciti dalla costituzione etiope”.

In un contesto come quello odierno però, dove risulta difficile fare una discriminazione tra le notizie, queste nuove restrizioni rischiano di lasciare spazio ad un ulteriore interrogativo: chi controlla il controllore?

Di certo non avremo più risposte avendo meno fonti, né risposte più accurate tacciando le fonti.

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