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Etiopia, grano, sicurezza, siccità: il fattore tempo in una crisi dimenticata

L’Etiopia lo scorso anno ha acquistato dall’Ucraina cereali, derivati e macchinari industriali per oltre 200 milioni di euro, dalla Russia invece cereali ed articoli derivati per un ammontare di 40 milioni di euro.

La guerra tra i due paesi, tra i maggiori produttori mondiali di cereali, ha interrotto la catena di approvvigionamento, ha causato un innalzamento generalizzato dei prezzi ed ha causato una carenza di prodotti primari, come il grano e l’olio di semi, mai registrata fino ad oggi.

In un’intervista ad Ena (Ethiopian News Agency) l’agenzia stampa statale, il professor Berhanu Denu, docente di economia presso l’Università di Addis Abeba, ha tracciato due strade percorribili per evitare una catastrofe alimentare: “la diversificazione geografica delle importazioni e l’aumento della produzione interna di tali prodotti”.

Berhanu Denu.
Professor of Economics, Addis Ababa University

In effetti, l’Etiopia potrebbe produrre molti dei prodotti che attualmente importa in gran quantità, ha un’economia nella quale l’agricoltura costituisce ancora la spina dorsale dell’economia interna, con un 40,5% del PIL e con oltre 12 milioni di famiglie sul campo.

Ma allo stato attuale il grado di crescita del paese e quindi anche del settore agricolo, non hanno coinciso con lo sviluppo del settore; l’agricoltura rimane ancor oggi in gran parte un’economia di sussistenza, al netto dei piani di crescita a trasformazione (Ethiopian Growth and Transformation Plan)  tesi al raggiungimento della sicurezza alimentare e nutrizionale, allo sviluppo agricolo e al raggiungimento dello standard di paese a medio reddito entro il 2025.

C’e da dire che il paese è tra i maggiori produttori di grano del continente insieme ad Egitto e Marocco ed ha appena presentato un piano per aumentare a 400mila ettari il terreno dedicato alla coltura del grano estivo (oggi sono 160mila). L’obiettivo del governo, così come presentato da direttore per lo sviluppo delle colture presso il ministero dell’Agricoltura, Isayas Lemma, è quello di raggiungere l’autosufficienza e divenire un esportatore netto di cereali.

Nel paese sono state introdotte ulteriori varietà di grano, più resistenti, conferma Bekele Abeyo, direttore nazionale del Cimmyt all’ENA. Un’introduzione resa possibile dall’intervento dell’International Maize and Wheat Improvement Center (Cimmyt), che ha permesso di aumentare la resa media nazionale del grano da 2,71 tonnellate per ettaro alle 3,04 attuali.

Bekele Abeyo. Senior Scientist, Wheat Breeder and Pathologist for sub-Saharan Africa & Country Representative for Ethiopia

Il governo, circa tre anni fa, ha lanciato un grande progetto per sviluppare le piantagioni di grano basate sull’irrigazione in Oromia, nelle zone pianeggianti Afar e in quelle della Regione delle nazioni e dei popoli delle nazioni meridionali. Sforzi che hanno portato l’Etiopia ad arrivare a produrre poco più di 4,5 milioni di tonnellate di grano, ma che abbisognano di tempo per arrivare a coprire le 17 milioni di tonnellate importate in questo anno.

Tempo che di fronte una tempesta come quella che intravediamo dietro l’angolo, potrebbe essere una variabile fondamentale.

Ma non solo l’accaparramento o la produzione sono oggi al centro del discorso. Infatti, una delle barriere che oggi frena lo sviluppo agricolo ed industriale del paese è la sicurezza. L’instabilità di alcune regioni del paese, mette a repentaglio il trasporto delle merci, dal sito di produzione ai siti di stoccaggio e consumo.

La mancanza di sicurezza danneggia l’economia del paese, andando a gravare soprattutto sulle esportazioni, che si tradurranno ben presto in un calo fisiologico di valuta estera; la diminuzione dei fondi di investimento diretti dei paesi esteri, altra componente legata alla sicurezza, peserà ulteriormente sul sistema, andando a gravare il carico esistente.Da qui l’aumento del costo delle materie prime, la scarsità di alcuni prodotti, l’aumento dell’inflazione, oggi attestatasi al 36.60%, con un’inflazione alimentare al 42.90%.

Al di fuori del settore alimentare, la stessa logica vale per i combustibili minerali, per i prodotti chimici, i fertilizzanti essenziali per la produzione agricola e ai materiali di ferro, acciaio e rame per le infrastrutture alla cui costruzione il paese si è lanciato nell’ultimo decennio.

Una tempesta perfetta: intere aree del paese sono state devastate dalla guerra, alcune di esse oggi lo sono ancora.

La produzione agricola, soprattutto nel Tigray è rimasta praticamente ferma, l’accesso degli aiuti alimentari viene permesso con il contagocce, la disponibilità di materie prime come i cereali, l’olio di semi, il gasolio è praticamente nullo; nella regione l’accesso all’assistenza medica di primo soccorso è impossibile, ormai mancano non solo i farmaci di base (figurarsi quelli per il cancro o il diabete) ma anche i dispositivi di consumo (guanti sterili e siringhe) sono merce rara.

Profughi provenienti dal Tigrai ad Hamdayet, al confine tra Etiopia e Sudan, 21 novembre 2020. (Nariman el Mofty, Ap/LaPresse)

Il denaro, a causa del congelamento dei sistemi bancari -che ormai dura da ben due anni- è introvabile e il gasolio merce rarissima.

Una guerra, quella nella regione che ha causato 5,1 milioni di sfollati interni, oltre 67000 nel vicino Sud Sudan, 500mila morti secondo uno studio dell’Università di Gand, e che secondo il rapporto annuale dell’Intergrated food security phase classification (Ipc) porterà in queste settimane ad “un deterioramento significativo ed ulteriore della situazione nutrizionale”, passando da un IPC4 “situazione grave” ad un IPC5 ovvero “situazione critica”.

Nella regione Afar, 220mila persone sono state sfollate dalle proprie abitazioni e città a causa dei combattimenti tra il TDF e le milizie Afar, dopo l’occupazione di intere aree a confine da parte delle truppe tigrine.

Migliaia di persone andate a rifugiarsi in zone remote per sfuggire alle violenze, difficilmente raggiungibili dalle agenzie umanitarie, in condizioni di sicurezza, sanitarie e alimentari precarissime, in una regione impervia come quella che si estende nella depressione dancala.

© Unicef

Il 26 Aprile il Tplf ha annunciato il ritiro completo delle truppe dalla regione, ma gli sfollati restano. Intere città, come Abala, risultano delle città fantasma, svuotatesi di uomini, attività, animali. Tutto resta vuoto, il vuoto lasciato da una guerra che nulla ha cambiato, ma solo distrutto.

 

La siccità. Un dramma che va a sommarsi ad altri.

48 secondi. In Etiopia a causa della siccità potrebbe morire una persone ogni 48 secondi se non verranno prese contromisure adeguate, così denunciano Oxfam e Save the Children attraverso il rapporto “Dangerous Delay 2: The Cost of Inaction”. 

Lunghi mesi di siccità – si calcola si ala peggiore degli ultimi 40 anni- ed una stagione delle piogge praticamente mai arrivata hanno devastato interi i raccolti, portato alla morte oltre 987mila capi di bestiame e stanno costringendo migliaia di persone a lasciare le proprie case in cerca di cibo ed acqua.

© Unicef

Tutti gli appelli sino ad oggi sono stati ampiamente sotto finanziati, anche a causa di altre crisi, come quella Ucraina, che hanno fagocitato sforzi, finanziamenti ed attenzioni.

Sono passati 11 anni dalla carestia che nel solo Corno d’Africa causò 260mila morti, di cui la metà bambini sotto i cinque anni. Allora la risposta della comunità internazionale arrivò, seppur tardi, ma permise di evitare una catastrofe totale.

In regione in cui l’80% della popolazione fa affidamento sull’agricoltura e sull’allevamento per la propria sussistenza, è indispensabile che tutti gli sforzi vadano fatti convergere verso il ripristino ed il rafforzamento di settori come l’agricoltura e l’allevamento, soprattutto in previsione di shock climatici sempre più frequenti.

Una tempesta perfetta è dietro l’angolo. Si è ancora in tempo per evitarla, ma occorrerà uno sforzo globale per il cambio di rotta.

 

 

 

 

 

 

 

 

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