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Costa D’Avorio, Paul con il sole negli occhi e la guerra sulla pelle

La guerra sul nero di pelle e il sole negli occhi. Ha ferite aperte e segni d’Africa su braccia e costate.

Le lacrime fuori ogni angolo di cuore vuoto. Le assenze della sua vita sono nel cuore. Vuoto di mamma, papà e Sajo, il fratellino di sei anni. Trucidati.

Tutto perso in pochi attimi di lunghi secondi di un giorno indimenticabile.

Abidijan, capitale della Costa d’Avorio.

Una casa felice. Saltata in aria. Distrutta. Guerra civile. Maledetta, incivile, fratricida.

Ha lasciato solo al mondo Paul. Infelice felice di vivere.

In Italia da 6, 7, forse 8 anni. Volato dalla finestra mentre tutto schizzavin alto, col boato, il bicchiere di the alla menta, i resti del cous cous e i corpi dilaniati dei cari.

Tutto lì in quell’Africa del cuore che si porta sulla pelle negli occhi. Nero. A metà. Perché é già un po’ europeo, salernitano d’Italia e tra qualche mese papá. Lui che cerca ogni giorno, nei volti della gente che incontra, il suo papà, la sua mamma, il suo fratellino, guarda e non vede come sarà il suo bambino. Nero a metà. Italo Afro. Afro Italo. Cittadino del mondo, d’Europa, d’Italia o di dove, chissá. Qui da meno di dieci anni.

Non é sbarcato. Da Abidijan l’han messo, ferito, sanguinante su una corriera verso il Mali. Un fuggitivo. Curato in ospedale dopo alcuni mesi é nel deserto,  scarpe rotte, piedi nudi, gola arsa, e occhi di sabbia. Algeri, Libia, Tripoli, reception d’albergo dove trova ristoro, lavoro e paura d’essere preso dagli uomini di Gheddafi. Allertato da un’eco di voci, rumori di baionette, passi di scarponi in marcia, si tuffa intero nel bidone della spazzatura.

Resta lí. Tre giorni e due notti. Poi riemerge. Scoperchia il bidone.

Affannosamente respira. Ha solo fame d’aria e sete d’ossigeno.

Lurido di spazzatura, su mani, capelli e vesti, rivoli di liquami e gelsomini appassiti.

Non fa in tempo a mettersi in piedi che ha un kalasinkof sulla tempia.

Quando riapre gli occhi è nel carcere. Sotterraneo, carcere comune con utti dentro i prigionieri. Innocenti uomini, donne, vecchi, bambini arrivati da Stati vicini e lontani, e, come avvistati così catturati.

Un bel po’ di mesi con le torce di notte negli occhi, e di giorno a testa in giù.

Denti stretti. Respiro trattenuto. Resiste ai morsi della fame.

Donne arabe passano resti di cibo e con mano del cuore stringono figli freddi di morte. Paul, quindici anni, governa paura e terrore.

Quando aprono i cancelli del carcere, alla voce della morte di Mu’ammar Gheddafi,una marea di gente va verso il porto.

Lui no.Tira dritto all’incontrario.Va col vento, scalzo e affamato, verso la Tunisia.

Non vuole lasciare la sua Africa. I miliziani lo rincorrono.

Vanno su e giú a dar di manganello sul suo corpo, dalla testa ai piedi al torace. Di peso lo portano a bordo. Per due tre volte ancora si ripete la scena come un ciak nel suo …”si gira”. Stordito, esanime, è sul barcone della traversata. Quarantotto persone, uomini, donne, bambini con destinazione Lampedusa. Tocca terra con solo altri pochi vivi. Meno delle dita di due mani. Digiuno. Arso.

Sopravvissuto alla traversata per non aver bevuto il mare.

In pericolo di vita. I giorni in mare, sempre grosso, con burrasche, albe fredde e onde lunghe dava di stomaco e beveva la sua orina per non morire come sentiva dire e vedeva fare ad un pescatore nigeriano insieme a traversare. Un elicottero lo trasporta all’ospedale di Bari.

In precaria remissione è in varie destinazioni e in precari asili.

Gira comuni e conosce gente d’ogni età. É adulto da quando tutto è successo ad Abidjan. Vive come uomo. Ama come un bambino.

Pensa da vecchio.Nel giorno dei diciotto anni é fuori da ogni centro di accoglienza.

Ruba all’ozio il tempo per studiare, ruba i profumi delle cucine per saziarsi d’aria, fuma sigarette che gli passano, non dorme e sogna ad occhi spalancati. Una famiglia se ne prende cura per qualche giorno, così il presidente di un’associazione, un anno dal buon frate minore e poi solo in una stanza a vivere ogni giorno il nuovo giorno. Solo al mondo lontano dalla sua Africa con l’Africa in testa dá voce agli immigrati che chiedono in Mandingo e Bambarà il permesso di soggiorno nella commissione prefettizia.

É cameriere diplomato.Traduce e parla arabo,francese, inglese e i non so quanti dialetti degli Stati d’Africa. Pelle a pelle. S’é ritrovato improvvisamente in un cuore bianco. Innammorato, capito e rapito. Ivoriano costretto a fuggire per non essere ucciso, gettato come zavorra  sul barcone per l’isola dei conigli. Lampedusa, dove l’Italia abbraccia il mondo accoglie e smista a seconda. Ora, dopo anni, Paul, come tanti Samir, Benjamin, Marcel, Damy, sogna lavoro, casa, famiglia e cittadinanza italiana. Chissá che ne sarà dei tanti extracomunitari che da anni, chiamati da associazionidiverse, si prestano a tradurre e interpretare idiomi, dialetti, lingue e modi di dire d’Africa, nelle commissioni di Prefetture abilitate, ad audire gli immigrati, per il rilascio dei permessi di soggiorno. Un lavoro prezioso, non riconosciuto, che, pare, vada scemando con i porti chiusi, ma che dà pur da sopravvivere. Qualcosa accadrà per questo amore così forte colorato di vita che verrà. Qualcosa accadrà per illuminare la notte di Meriam, di Samir, di Luis, di Shedrack, di Makena, di Paul e dei tanti italiani d’Africa. Qualcosa nel mondo accadrà e sarà pane, pace, acqua e libertà per l’Africa.

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