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Cosa sta succedendo in Senegal: il parere di Aly Baba Faye, sociologo ed esperto di migrazione

Il Senegal, Paese che vanta da anni una forte stabilità, è oggi in crisi. Manifestazioni, repressioni, centinaia di feriti e tanti morti hanno riempito le pagine della stampa nazionale e internazionale nel corso degli ultimi giorni. Ma cosa sta succedendo?

A meno di un anno dalle elezioni Presidenziali, in programma a febbraio 2024, il tête à tête tra Macky Sall, attuale Presidente, e Ousmane Sonko, leader del partito di opposizione Pastef, sembra padroneggiare la scena d’analisi: condanne e accuse, incostituzionalità del terzo mandato di Macky Sall, giovani che chiedono sempre di più un cambiamento e città che sprofondano nel caos.

Per avere un’analisi più accurata dei fatti che stanno interessando il Paese, abbiamo scelto di intervistare il Dott. Aly Baba Faye, Sociologo ed esperto di migrazioni da quasi quarant’anni in Italia.

Cominciamo dall’attualità. Cosa si nasconde dietro quello che sta succedendo in questi giorni in Senegal?

Quel che accade in Senegal da un paio di anni a questa parte va oltre la contingenza di una stagione pre-elettorale. Credo ci sia qualcosa di molto più profondo che inerisce il contesto politico e le determinanti strutturali della società senegalese.

 Cioè?

A mio modo di vedere c’è un set di fattori (sociali e culturali) che pesano in modo diverso sulla vertenza politica. Certo quel che abbiamo visto, in questa vertenza, risulta il lato manifesto, quello che definirei più dibattuto. Ed è quel che fa sì che il Senegal sia stato oggetto di attenzione dei media e dell’opinione pubblica mondiale. Va anche detto che l’attenzione e l’interesse sul caso senegalese è speculare alla reputazione che il paese della Teranga ha avuto. Da sempre vista come una “eccezione africana”, una “vetrina di democrazia”, una nazione unita che può contare su uno Stato e delle istituzioni funzionanti, oggi sembra far dibattere su una stabilità che rischia di crollare.

Proprio per questa ragione le manifestazioni e tutto quel che ha colpito il Paese negli ultimi giorni si è palesato come una notizia. La forte tensione politica con il suo corredo di violenze, abusi, distruzioni e  morti va ben al di là di una crisi agitata in una stagione pre-elettorale. Certo le tensioni sono state sempre parte dell’effervescenza politica e della vitalità democratica, ma c’è molto di più!

Ad esempio? Cosa c’è di più rispetto al passato?

Ora siamo di fronte ad una questione forse inedita che mette a nudo il logoramento di un paese considerato per lungo tempo un modello virtuoso nel contesto africano. L’onda lunga di una società iper politicizzata, dal periodo coloniale all’avvento della Repubblica, presenta il conto della storia perché il Senegal è una società prettamente politica. Un paese dove l’esercizio politico è prova di democrazia e garanzia di libertà. Quel che a mio avviso è stata la forza del sistema paese è l’aver costruito una nazione ovvero un comune voler vivere assieme. C’è stata una processualità che ha dato forza e equilibrio alla statualità. Possiamo parlare di Repubblica ma è qualcosa di più pregnante di una gamma di norme, di codici o di istituzioni. C’è una sorta di patto di convivenza che viene da una storia millenaria e che raffigura la costituzione materiale del paese.

È il modello senegalese?

Sì, il cosiddetto modello senegalese che ha radici profonde nella storia del paese che finora si è distinto per la solidità dello Stato e la stabilità sociale. Insomma vi è una sociologia del luogo e del logos che ha reso possibile il consolidarsi di un modello finora ritenuto virtuoso e che rischia di essere distrutto. Basta pensare alle espressioni coniate di volta in volta per parlare del paese della “Teranga” (parola in lingua wolof che potremmo tradurre con termini quali gentilezza o generosità).

Ci potrebbe dare una sua definizione di “Paese della teranga”?

È un vocabolo della lingua wolof difficile da tradurre. Forse potrebbe significare “gentilezza”. È attorno a questo concetto che si è costruito una nazione unita pur nel pluralismo etnico e religioso. La “teranga” è stata fin qui la chiave di volta, oserei dire l’asset pedagogico della convivenza civile e della coesione sociale del mio Paese.

Con gli eventi tragici che sono avvenuti, una domanda sorge spontanea. Come si è arrivati a tanto?

È scossa e turbata la lunga quiete sociale e la stabilità politica di quel bel paese. Con l’inedito livello violenza politica che ricorda le peggiori guerre civili e che rischiano di consumare una pericolosa lacerazione sociale.

Non sarà mica la cosiddetta “maledizione del petrolio” visto che il paese ha conquistato un nuovo status di paese petroliero e gaziero? Senza ricorrere a formule o slogan prêt-à-porter possiamo solo prendere atto della gravità di una situazione e cercare di capire le cause profonde che hanno determinato la crisi. Infatti ci sono diversi fattori sociali e culturali che hanno reso ancora più profonda la crisi politica. Ci sono tre fattori che vanno considerati per l’apprezzamento della situazione. Una situazione che è segnata non solo dalla crisi polimorfa ma da profondi mutamenti nella società senegalese.

Direi quindi a conferma che non stiamo parlando solo di una crisi pre-elettorale.

Certo la prospettiva dell’elezione presidenziale prevista per febbraio 2024 pesa sulla tensione e porta a credere che questa volta non siamo nel corso normale di una dialettica politica. La posta in gioco è altissima. Con la presidenziale il Senegal si gioco il proprio futuro. Dagli esiti di quell’appuntamento dipenderà il corso che il paese prenderà. La questione della governance sarà la chiave di volta.

Ousmane Sonko il principale oppositore al regime è diventato un perno in questo gioco.

Il discorso di Ousmane Sonko catalizza le speranze di ampi strati della popolazione a cominciare dai giovani. La sua offerta politica sembra la zattera su cui aggrapparsi per non affondare. Si è presentato come un profeta di giustizia e di verità secondo i suoi militanti e simpatizzanti. In ogni caso l’arrivo Sonko e il suo discorso di “liberazione” è una promessa di riscatto che ha catalizzato una vecchia domanda di giustizia. La questione del sovranismo e dell’autodeterminazione sono una domanda sostenuta della gioventù africana. Basta guardare come nei paesi francofoni cresce una voglia di rompere le catene del dominio e dello sfruttamento. E c’è una distanza siderale tra quelle aspirazioni dei giovani e la politica delle élites ancorate nel retaggio neo-colonialista. Dunque, diversamente dalle altre volte, la prossima presidenziale è uno sparti acque tra continuismo e rottura. E in questo quadro la posta  in gioco sarà la tenuta stessa delle basi sociali della democrazia. C’è per forza e determinazione, la presenza di nuovi attivisti accanto a quelli tradizionali ma soprattutto l’impegno massiccio di giovani con un approccio radicale e di rottura. L’assenza di opportunità lavorative, l’aggravarsi dell’ingiustizia sociale, la pauperizzazione sono ingredienti che accrescono il desiderio di sovvertire il sistema e di cambiare. C’è una fortissima domanda di rottura per porre fine al malgoverno, alla corruzione e al parassitismo e alle manipolazioni. Dunque per alcuni versi possiamo notare un fatto generazionale che si nutre dalla crisi di credibilità degli adulti. Una crisi di autorità che investe quasi tutte la società. Ecco un segnale che il popolo sta diventando adulto nonostante ¾ della popolazione sono giovanissimi.

Quindi c’è anche, e forse soprattutto, una dimensione demografica da tenere in conto.

Certo un elemento che certamente pesa sulla crisi è il fattore demografico. Da un decennio a questa parte ogni anno circa mezzo milione di giovani varcano la porta della società attiva e la stragrande maggioranza non ha alcuna opportunità di lavoro. C’è un livello di frustrazione diffusa e una grande rabbia. E parallelamente all’arroganza della politica del mal-governo, della corruzione, dell’ingiustizia, cresceva la rancore sociale che aspettava una scintilla per prendere fuoco.

A proposito di giovani, cosa pensa del danno recato all’università?

Questi sono gli effetti collaterali che andrebbero evitati. Bruciare gli archivi di alcune facoltà, i laboratori scientifici all’università non è bruciare pneumatici sull’autostrada. Qui si è aggredito il tempio del sapere e ancora plana il dubbio che lo possono aver fatto degli studenti. Ora si sospetta di infiltrati o comunque di soggetti che hanno un disegno che va oltre la protesta oppure che si tratta di manipolazione per screditare la protesta e presentare come forze oscurantiste. Servirebbe un’ inchiesta per trovare la verità su questo scempio. In ogni caso quando si bruciano biblioteche o archivi non solo si aggredisce la memoria e l’intelligenza del paese, ma si dà un segnale preoccupante.

E del silenzio e delle restrizioni che hanno interessato il Senegal nel corso degli ultimi giorni? Penso ad esempio al blocco della connessione internet.

È un segnale preoccupante. È una scelta che avviene solo nelle peggiori dittature. Se sommiamo questo fatto ad altri come la sospensione del segnale di alcune tv, il divieto di circolazione in certe zone dopo una certa ora, la repressione dura delle manifestazione e l’aumento vertiginoso dei detenuti politici si può temere la voglia del regime di mutare in un sistema totalitario. Ma è un’illusione pensare che quel paese possa rinunciare alla libertà e alla democrazia. Questo lo sanno tutti. Tuttavia la tentazione dell’autocrazia o della “democratura” sembra passare per la testa a qualcuno.

Quale il suo pensiero rispetto al dialogo nazionale lanciato dal Presidente della Repubblica Macky Sall?

Dico da uomo che crede nel dialogo che qui c’è un trucco che va smascherato. Se la semantica è importante e debba avere una sua pregnanza allora dico che quel teatro lì non può essere venduto come dialogo nazionale. Al massimo è un tentativo di deal politico. Un gioco di casta per legittimare qualche diavoleria. Per me è un’operazione giacobina fuori tempo. L’unica cosa che ci sarebbe da discutere è come organizzare la presidenziale in modo inclusivo e nei tempi stabiliti.

Come vede il futuro prossimo?

Non disponendo di una palla di vetro mi resta solo da nutrire una speranza ovvero che il Senegal possa ritrovare al più presto la sua anima e la sua vocazione alla pace sociale. Poiché non c’è pace senza giustizia bisognerebbe che il paese si metta nelle condizioni di curare  le sue ferite e di sanare le fratture. La priorità delle priorità resta l’urgenza di dare risposte alle domande dei giovani. Serve una nuova classe dirigente che si metta al servizio con onestà e devozione. Ma ripeto, se non si capisce che oggi c’è una frattura lungo le linee di faglia della frontiera generazionale anche nel senso di generazione di idee allora la soluzione non è per domani.

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