Viviamo uno scorcio di secolo nel quale clima, tecnologia e guerra ci portano sempre più lontano dalla nostra zona di conforto. Per fare del nostro meglio dobbiamo abbandonare anche le classiche soluzioni, facendo dei veri e propri esercizi di futuro.
Ma forse neanche l’ormai tradizionale approccio al mondo fantastico, ormai poco immaginifico, ci viene veramente in soccorso. Per riattivare la nostra innata capacità di creare immagini mentali servono quindi altre narrazioni.
Si parla sempre più spesso delle specificità del fantastico letterario africano come di un possibile approccio alternativo alla fantasia. Su queste pagine ne abbiamo parlato a proposito dell’antologia Futuri Uniti d’Africa (Future Fiction 2021), ma altrettanto fa Africanfuturism (Brittle Paper, 2020). Dal 2018 sono stati coniati, o ripescati, termini specifici per identificarla: si parte da ‘Afrofuturism‘ per passare ad ‘African Futurism’ (in due parole) ed arrivare infine ad ‘Africanfuturism’ (in una parola sola).
Per chi lo conosce, questo approccio può sembrare simile alla Négritude francofona, nata quasi un secolo fa, o anche alla meno nota corrente in lingua portoghese. Ma non lo è, perché all’epoca non c’era la tecnologia. Oppure è la stessa cosa, ma con un altro nome.
Chiamiamolo Africanfuturism
Il termine forte sembra essere Africanfuturism. Non a caso, il termine Afrofuturism non nasce da un nativo africano. Non a caso, il dibattito risente della forza di gravità della Nigeria. Wole Talabi (nigeriano), Nnedi Okorafor (nata negli States da genitori Igbo) e Mohale Mashigo (sudafricana di lingua sepedi, ceppo bantu non khoisan), tra gli altri, rivendicano a vario titolo una fantascienza e un fantasy. Ci sarà un motivo.
Foto dei tre autori: Da sinistra a destra Nnedi Okorafor, Mohale Mashigo e Wole Talabi.
Personalmente, ritengo che questo sia il centro del dibattito. Il fantastico africano è un fantastico locale, nel quale non valgono le ripartizioni occidentali tra fantasy e fantascienza, in quanto nessun fantastico africano può prescindere da elementi mistici. Personalmente, mi è sempre stata chiara la differenza tra la creazione di un immaginario di tipo occidentale e uno di tipo africano. “Pensa ad un posto dove non ci sono libri”, mi disse la scrittrice botswana Tlotlo Tsamaase, unica narratrice presente sia in ‘Futuri Uniti d’Africa” curato da Francesco Verso, sia in “Africanfuturism” curato da Talabi.
Oppure Africanjujuism?
La Okorafor è andata ancora più in là, coniando un termine ancora più specifico come ‘Africanjujuism’. ‘Juju’ è una parola nigeriana che indica la magia protettiva, gli spiriti, e il soprannaturale. La versione narrativa non ne può prescindere, in quanto è intrecciata con le realtà e le culture africane contemporanee per narrazioni non solo letterarie ma anche sociali e politiche.
Giova qui ricordare che parlare di Africa tout-court non ha senso. In sintesi, facciamo riferimento principalmente all’area dell’Impero di Kanka Mussa, che più o meno diventò l’Africa Occidentale Francese, e all’area bantu che dal Camerun si muove verso sud. Non ce ne vogliano le altre aree.
Orbene, per provare a capire la differenza tra science fiction e africanfuturism dobbiamo rimuovere almeno due bias culturali: la scrittura e Isaac Newton.
L’Occidente e la perdita della voce
La scrittura in Occidente separa la mutevole tradizione orale dalla fredda cronaca, il mito dalla storia. Tutte le civiltà hanno trovato un modo di registrare per iscritto quantità rilevanti per lo sviluppo sociale, ma non in tutte le civiltà la registrazione dei fatti è diventata narrazione e mistificazione per iscritto. Senza ricordare l’oralità, la scrittura diventa architettura, dimentica l’emozione diretta per ricostruirla in forma indiretta.
È ragionevole che gran parte del mondo a tutt’oggi rifiuti questo passaggio e consideri il mito parte integrante della realtà e la scrittura come estensione del racconto orale, emotivo e non per forza preciso nei quark e negli attosecondi.
L’Occidente e la perdita delle stelle
Il secondo punto riguarda Isaac Newton, l’uomo che cambiò il mondo portando la scienza al di fuori dell’uomo, verso le stelle. La sua versione del calcolo matematico via via porterà l’uomo sulle stelle, sottraendole al mito e al sogno. Questa simbologia matematica altro non è che un tipo di scrittura, che come l’altra separa definitivamente l’uomo dal mito ultraterreno, dalla sua versione che prima risiedeva dentro l’uomo, nella sua parte spirituale. Chi, come gli “africani”, rifiuta la narrazione post-Newton, non ha perso il sogno delle stelle, ma lo ha ancora dentro di sé.
Un giorno scriveremo la storia dei fisici africani! Per ora dobbiamo riconoscere che il fantastico non si risolve sempre alla occidentale, in quello che Wole Talabi chiama “prosthetically-enhanced future”.
Immagine di copertina: Donna africana che racconta e vede l’africanjujuism (immagine creata da Midjourney)