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Sudan, le nuove repressioni e il ritorno della “polizia morale”. Cosi muore la democrazia

Tre anni fa a Khartoum si respirava aria intrisa di speranza. Stava nascendo il nuovo Sudan, con la firma di un accordo costituzionale costato la vita a centinaia di sudanesi che si erano sacrificati per la democrazia, la libertà, i diritti del proprio popolo.
Oggi nella capitale, come in gran parte del Paese, non ci celebra quell’anniversario come la giornata storica che avrebbe dovuto essere per sempre, ma un fallimento.
Anzi, un tradimento. Quello dei “generali”   guidati da Abdel Fattah al Burhan, il numero 1 del Consiglio sovrano, l’organo politico che aveva affiancato il primo ministro Abdalla Hamdok, a cui era stata affidata la guida del governo di transizione.
Il 25 ottobre del 2021  con il golpe che ha deposto l’economista che aveva risollevato le sorti di un Sudan rispetto in macerie dal regime di Omar Hassan al Bashir, è stato bruscamente interrotto il processo di democratizzazione che avrebbe dovuto portare, nel 2023, alle prime elezioni libere in Sudan dagli anni ‘80.
Da quel momento i sudanesi non hanno mai smesso di scendere in strada a reclamare che quel percorso fosse ripristinato nonostante la repressione delle forze di sicurezza si sia abbattuta su di loro con violenza inaudita, ad oggi le vittime sono non meno di 130 e circa un migliaio i feriti. Incalcolabile il numero degli arrestati.
Anche ieri la polizia ha sparato gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti che si sono riuniti nel centro di Khartoum nel giorno in cui ricorreva l’anniversario della firma dell’accordo costituzionale per protestare contro la giunta militare al potere. Un morto e due feriti il bilancio provvisorio.
Durante il corteo gli attivisti hanno sollevato manifesti e hanno intonato slogan con i quali chiedevano il ripristino di un governo civile.
Gli scontri si sono verificati in diverse zone della capitale, con pneumatici bruciati e lancio di pietre contro gli agenti in reazione alle cariche e al lancio di gas lacrimogeni.
La protesta di ieri sarà seguita il prossimo 24 agosto da uno sciopero generale che determinerà un blackout di tutte le attività nel Paese .
Nel frattempo, gli attivisti per i diritti umani denunciano che presto potrebbe essere ripristinava la “polizia morale” del vecchio regime di Bashir che riporta alla memoria tempi oscuri e terribili della storia del Sudan.

La scorsa settimana il governo ha annunciato la creazione di un’unità di polizia comunitaria per “consolidare i rapporti tra le persone e l’autorità” e garantire la sicurezza.
”L’ex “unità di servizio comunitario” della polizia, che arrestava e puniva le persone, in particolare le donne, per il loro comportamento, era stata sciolta dopo la destituzione dell’ex presidente Omar al-Bashir nel 2019” spiega Amir Suliman, un avvocato sudanese per i diritti umani dell’African Center for Justice and Peace Studies.
Il governo Hamdok aveva abrogato molti degli articoli della  legge sull’ordine pubblico che impedivano alle donne di indossare pantaloni, di avere la testa scoperta o di mescolarsi con uomini che non erano parenti stretti, come quelli relativo al divieto di produzione di birra o di consumo di alcolici.
Tuttavia, i tribunali in alcune parti del Sudan hanno continuato a perseguire le donne per aver violato il “codice” sull’abbigliamento e le persone che sono state sorprese a bere alcolici e per questo condannate alla fustigazione.
Il tumore che la nuova unità sia un altro tentativo di annullare i piccoli passi avanti compiuti per i diritti delle donne negli ultimi due anni.
Nelle scorse settimane sono stati registrate varie irruzioni in case private nei quartieri benestanti di Khartoum e in un caso sono state arrestate 18 persone con l’accusa di consumo di alcolici e di prostituzione.
“Siamo di fronte al tentativo di ammansire le persone, seminando il panico soprattutto per quanto riguarda l’abbigliamento e il look. Abbiamo una lunga storia in merito, da quando il Sudan era sotto l’amministrazione britannica. La possibilità di un passo inetto sui diritti delle donne è davvero preoccupante” sottolinea Meriam Abdelgadir, difensora dei diritti delle donne.
Davvero un’amara considerazione, quanto il fallimento, o meglio l’abbattimento,  del governo di unità nazionale in Sudan nato dopo mesi di rivolte e centinaia di vittime.
Grazie ai giovani e alle donne, il vero motore della rivoluzione del 2019, il dittatore Bashir al potere da 30 anni era stato deposto grazie ai militari che avevano preso le parti della società civile.
C’erano davvero tante speranze per quell’alleanza sancita nell’agosto di tre anni fa tra la Giunta dei generali e le Forze della libertà e del cambiamento.
Tanto è stato fatto, ma il 25 ottobre scorso la transizione democratica sudanese è stata interrotta e guardando alle continue repressioni del dissenso, alle condizioni disperate nelle periferie del Paese, ai disastri causati dalle alluvioni, agli scontri tribali nel Sudan Orientale e agli attacchi delle milizie in Darfur, che hanno costretto già centinaia di migliaia di persone alla fuga, il percorso verso una democrazia compiuta appare ormai irrimediabilmente interrotto.

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