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Etiopia, il governo ha bloccato dichiarazioni di carestia per il Tigray.

Se manca il grano in terra d’Africa

L’Africa rischia, in tale frangente storico attraversato dalla guerra che l’aggressione russa all’Ucraina ha scatenato al confine orientale d’Europa, una crisi alimentare profonda su cui richiamano l’attenzione tutti gli analisti di temi politici internazionali. Con conseguenze di cui è difficile calcolare adesso la portata. La dipendenza degli Stati africani dagli approvvigionamenti di grano e altri cereali dall’Ucraina e dalla Russia è, infatti, molto alta. L’ONU stima che la percentuale delle importazioni africane di questi beni primari dai due Paesi oggi in guerra superi il 40%. Le navi cariche di grano bloccate nei porti del Mar Nero minacciano di aggravare le già difficili condizioni di vita del Continente. Né la recente visita a Mosca fatta dal presidente dell’Unione Africana, il senegalese Macky Sall, insieme al presidente della Commissione dell’Unione Africana Moussa Faki Mahamat, per cercare di arrivare a un accordo in merito, pare aver sortito un qualche effetto se non offrire un’occasione di propaganda a Putin.

Eppure, non mancano all’Africa le risorse per sottrarsi alla dipendenza da altri Paesi del globo e guadagnare una posizione che la tuteli dai pericoli ai quali oggi è esposta. Non occorre continuare a menzionare le ricchezze di cui dispone il territorio e che fanno gola a tutte le potenze mondiali, impegnate a reperire materie prime per assicurarsi un posto di rilievo nel prossimo assetto geopolitico. Lasciate, oggi, allo sfruttamento da parte di Nazioni straniere e di compagnie e imprese a loro correlate in cambio di compensi destinati a finanziare un potere che si mantiene per lo più con le armi, la violenza e il terrore, esse potrebbero invece essere una fonte di reddito sufficiente a coprire i bisogni dell’intera popolazione africana e risollevarne le sorti. E, magari, non consentire a un neocolonialismo – più insidioso di quello precedente praticato dai Paesi europei – che ha le sue matrici nazionali in Cina, Russia e Turchia di procedere indisturbato nell’accaparrarsi l’Africa e i suoi abitanti e diventare di entrambi il padrone.

Certo, cambiare questo stato di cose per avviare una qualche transizione verso un futuro di consapevole promozione dell’identità africana è impresa ardua. Ma piccoli passi che vadano in questa direzione possono essere intrapresi. Talvolta – paradossalmente ciò avviene proprio grazie a eventi funesti che,cambiando lo scenario del mondo in cui viviamo, costringono a ripensarlo. Come, appunto, sta facendo la guerra mossa dalla Russia all’Ucraina che – con il suo impatto economico sulla vita delle persone, pressoché ovunque ha già costretto molti Paesi, fra cui l’Italia, a rivedere le proprie condizioni interne e ridisegnare le prospettive di sviluppo.

Giova rammentare, per esempio, che l’Africa è, dal punto di vista territoriale, uno dei più grandi Continenti. E che al suo interno non è affatto praticata l’agricoltura intensiva, sconosciuta ai più. È vero che le condizioni climatiche non sono le più favorevoli. Ma i progressi tecnologici, se correttamente impiegati, possono trasformare in piantagioni terre altrimenti pronte a diventare deserto. Tecnologie all’avanguardia, operosità e investimenti mirati possono rendere fertili anche i terreni più improduttivi,trasformando un ambiente ostile in un’oasi curata. È quello che ha fatto – sebbene in modo un po’troppo spregiudicato che non ha favorito i buoni rapporti con la popolazione palestinese, usa ad altri, più tradizionali sistemi nel suo stile di vita – lo Stato di Israele nei chilometri quadrati di terra che scendono a sud e si protendono verso il mar Rosso.

Che si tratti di una prospettiva di particolare interesse, peraltro, lo dimostrano, a ben vedere, le molte iniziative in corso da parte di imprese internazionali dell’agroalimentare, di governi stranieri e di privati – di accaparramento di terre incolte e vasti appezzamenti agricoli nelle aree depresse del mondo per sfruttarne i prodotti che vi si ricavano.

È il cosiddetto land grabbing, un fenomeno che si è intensificato nel primo decennio di questo secolo e che oggi è praticatopressoché ovunque su larga scala. Il 70% di acquisizioni di terre si concentra nell’Africa subsahariana. Ma anche le regioni del Corno d’Africa – l’Etiopia fra le prime – vittime della crisi economica e alimentare in corso, stanno concedendo terre alle multinazionali.Accingendosi a diventare ancora una volta, purtroppo – dipendenti da altri per la propria sussistenza e a rimanere privi di indipendenza produttiva in un ambito di primaria importanza come quello alimentare.

Sono pochi i casi di buon uso del terreno e di sfruttamento diretto delle sue risorse. Dovute per lo più a fondi missionari che finanziano le iniziative. Ma i risultati non mancano. Il workshop tenutosi a giugno a Nairobi ha portato a esempio, fra le altre, l’esperienza imprenditoriale delle suore di Kamasa, in Zambia, che hanno avviato un esperimento di acquacoltura e di allevamento di pollame, capre e suini che impiega più di 300 lavoratori stagionali e dà lavoro a circa 250 agricoltori di piccole cooperative. Oltre a dare un reddito che contribuisce al mantenimento agli studi di più di 900 alunni di famiglie povere.Analoghe esperienze si ripetono in Uganda e in Kenya.

Sono, certo, casi sporadici e di dimensioni modeste, che non modificano la portata del problema. Ma si tratta di avviare, per quanto possibile, un processo che metta l’Africa in condizione di attingere alle sue materie prime naturali per il sostentamento dellesue popolazioni. E di sfruttare le immense distese di terre che –con l’aiuto di nuove tecniche di coltivazione che ne esaltino il potenziale e ne contemperino i difetti – potrebbero essere resefertili e diventare un’occasione di benessere. Come si apprestano a fare, attendendosi lauti profitti, le multinazionali dell’agroalimentare e i governi stranieri. La Cina soprattutto. E mentre la crisi alimentare si profila all’orizzonte per i popoli africani, le vaste terre del Continente, in attesa di un’attenzione che stenta a arrivare da chi da sempre vive sul suolo d’Africa, giacciono ancora incolte e abbandonate a un destino aleatorio, che non lascia ben sperare.

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