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Ruanda, il genocidio che nulla ha insegnato

25 anni fa il genocidio in Ruanda. “Tutti i diavoli dell’inferno si sono spostati in Ruanda” si diceva durante quei terribili cento giorni, tra aprile e luglio durante i quali circa 800.000 tutsi e hutu furono uccisi”. Un genocidio di prossimità compiuto all’arma bianca spesso guardando negli occhi le vittime. Le meravigliose collinecaratteristiche dello stupefacente paesaggio dei Grandi laghi, i municipi grandi o piccoli, le piantagioni di banane e di tè, le scuole e soprattutto le chiese dove si rifugiavano i tutsi credendo di trovare rifugio furono riempite di corpi e di sangue. Il genocidio portò allo sterminio dei tutsi alla decimazione di una parte di popolazione di etnia hutu considerata dagli estremisti dell’<<Hutu power>> di visione troppo moderata. Non c’era uno specchio d’acqua in tutto il paese senza corpi galleggianti. Lo spettacolo di quella distesa di corpi inermi ed onnipresenti rimane fino a oggi il ricordo che serbo dei reportage che, tra mille difficoltà, che cercavamo di realizzare per testimoniare al mondo l’immensità tragica e la profondità del dramma che viveva il Ruanda, una delle pagine più sanguinose dell’età contemporanea.

Non è vero che il genocidio inizio con l’abbattimento in fase di atterraggio dell’aereo che riportava a Kigali l’’allora Presidente del Ruanda Juvenal Habyariumanainsieme al Presidente del vicino Burundi CyprienNtaryamira che viaggiava con lui. Il genocidio fu pensato, pianificato, preparato tanti mesi, tanti anni prima da parte di quei irriducibili hutu che non accettavano il negoziato avviato ad Arusha tra il potere della maggioranza hutu e la ribellione tutsi che si organizzò nel vicino Uganda e che lanciò un’offensiva militare nel 1990. Gli accordi di Arusha di Arusha, firmati nell’agosto del 1993, prevedevano un governo di transizione in vista di una condivisione del potere tra hutu e tutsi; una fusione in un solo corpo armato delle milizie tutsi dell’FPR dentro l’esercito regolare ruandese e un periodo di transizione durante il quale le parti avrebbero avviato una politica di riconciliazione nazionale e di stabilizzazione degli assetti politici. Il genocidio inizia dal rifiuto ostinato di questi accordi da parte degli estremisti hutu che consideravano ormai come un traditore il Presidente Habyrimana e cominciarono i preparativi militare per la “soluzione finale” ossia lo sterminio dei tutsi. Un esercito di funzionari dell’odio e della morte, i famigerati “interhamwe”. Questa parola in lingua kinyarwandasignifica coloro che lavorano insieme. Si tratta di una milizia paramilitare hutu formatasi nel 1994 a partire da ciò che era l’ala giovanile del Movimento RepublicanoNazionale per la Democrazia e lo Sviluppo. Sono loro gli “interhamwe” gli angeli della morte, sostenuti dal governo ruandese e, oggi sappiamo, dai servizi di sicurezza francese che negli anni tra il 1990 e l’anno del genocidio armarono pesantemente l’esercito di Habyarimana in funzione anti tusti. Lo stesso esercito francese accusato di aver, sotto l’operazione “turquoise” destinata a proteggere la fuga dei civili verso i paesi confinanti, in realtà protetto la fuga dei genocidari versoi campi del Congo e all’estero. La Radio des MillesCollines utilizzava le sue frequenze per incitare all’odio etnico, invitando gli hutu a segnalare ovunque la presenza dei nemici tutsi per ucciderli. Il carattere capillare e la perfetta organizzazione impediscono di pensare a una azione spontanea. In pochi giorni, la follia omicida tocca tutte le città del Ruanda e bastano poche settimane perché le acque del lago Kivu si riempiano di corpi orrendamente mutilati.

La memoria collettiva africana serba nel suo profondo il ricordo di numerosi eventi drammatici. Ma il genocidio ruandese rappresenta, per tutta la coscienza collettiva africana, un brusco risveglio. Un momento traumatico che ci mette dinanzi alla possibilità concreta della nostra scomparsa collettiva. Si può tranquillamente affermare, senza timore di essere smentiti, che la storia recente africana trova nel genocidio ruandese un punto di svolta, uno spartiacque tra prima e dopo che non smette mai di interrogarci. Tanti perché occupano lo spazio della mente senza mai riuscire a trovare una risposta nelle elucubrazioni storico-antropologiche oppure nelle disquisizioni geopolitiche e geoeconomiche. Il genocidio di un milione di africani per mano di africani è l’enigma irrisolta della nostra memoria collettiva panafricana. Il genocidio ruandese è un momento traumatico che ci mette dinanzi alla possibilità concreta della nostra scomparsa collettiva come popoli e culture africani. Esso diventa l’orizzonte ineludibile di ogni memoria passata, di ogni tentativo di leggere il nostro presente e di ogni proiezione verso il futuro. Tutti sono chiamati in causa dai fatti estremi del Ruanda: uomini politici, società civile, artisti e pensatori. Gli interrogativi per tutti sono gli stessi: qual è la nostra identità dopo il genocidio? Quale progetto comune inventare per le donne e gli uomini d’Africa? E soprattutto dove attingere i nuovi orizzonti di senso antropologico per conferire consistenza alla nostra visione del mondo? In attesa di rispondere a questi interrogativi vitali, ci resta solo il dovere della memoria.

Purtroppo per il continente, il genocidio ruandese non ha insegnato quasi nulla. La Regione dei Grandi laghi rimane un vulcano incandescente. Dal Ruanda, l’epicentro si è spostato in Repubblica Democratica del Congo e in Burundi in preda a un imminente guerra civile; il Sud Sudan appena diventato indipendente è subito entrato in una guerra fratricida con un corteo inenarrabile di morti, feriti, sfollati e rifugiati; Il Sudan vive una pericolosa tensione politica che potrebbe scoppiare da un momento all’altro in una deflagrazioni dalle proporzioni non prevedibili; sempre in Sudan la questione dei Monti Nuba e del Darfour attendono una soluzione umanitaria urgente e politica di lunga durata basata sul rispetto dei diritti inalienabili di queste minoranze oppresse.

Il genocidio ruandese non ha insegnato quasi nulla nel senso della prevenzione dei conflitti sulla quale l’ex segretario generale dell’ONU Boutros Boutros Galli aveva tanto insistito nel suo documento “Agenda per la Pace” che traeva le lezioni dai due più grandi fallimenti dell’ONU nel continente africano: l’operazione “RestoreHope” in Somalia e la tragica impotenza dei contingenti ONU in Ruanda. Sulla scia di questa intuizione anche l’Unione Africana si è dotato di un suo meccanismi di prevenzione dei conflitti senza darsi i mezzi delle sue ambizioni. L’amara costatazione è che il genocidio si può ripetere nei vari conflitti africani di bassa o alta intensità che siano.

Nel suo discorso celebrativo del venticinquesimo anniversario del genocidio il presidente Paul Kagame ha ricordato la drammatica frase di una giovane ruandese che esclamava: “dove era Dio durante il genocidio?”. Kagame ha dichiarato solennemente oggi che “Dio è tornato in Ruanda” venticinque anni dopo. Che Dio sia tornato è una buona notizia. Mi chiede se gli uomini del Ruanda e della regione dei Grandi Laghi se ne sono accorti. La regione resta una delle aree più pericolose del continente, insieme all’esplosivo Sahel ai confini e dentro il deserto. Il Congo Democratico aspetta la stabilizzazione del Kivu e di altre province; il Burundi sta sull’orlo di una guerra civile che rischia di ripetere l’inferno ruandese. Occorre una soluzione globale concertata tra i paesi dell’area che devono rinunciare alle mire egemoniche di respiro nazionale per abbracciare un progetto d’integrazione politica, economica e di scambi culturali e sociali. Democratizzazione e promozione della giustizia sociale sono i perni intorno ai quali costruire e consolidare un raggruppamento regionale attento alle ragioni di tutti che, alla fine, soddisfano le ragioni dei singoli. IL Ruanda è oggi un paese in pace ma circondato da vicini instabili. La sua pace rimane dunque precaria fino a quando il vicino Congo, il Burundi e l’Uganda non si metteranno intorno al tavolo per parlare il linguaggio della pace e della giustizia.

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