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Libia, ecco perché l’Italia non può e non deve rinnovare il Memorandum sui migranti

Partiamo da un necessario riepilogo. Già negli anni Novanta, col governo Dini, ci fu una ripresa delle relazioni fra il governo italiano e l’autorità indiscussa allora della “Gran Jiamahiria Araba Libica Popolare Socialista” del colonnello Gheddafi. Nel 2008, sotto il governo Berlusconi, quando già erano da tempo iniziati gli arrivi di richiedenti asilo provenienti dall’Africa Sub Sahariana che dalla Libia tentavano di arrivare in Italia, fu firmato, il 30 agosto il “Trattato di amicizia fra Italia e Libia”. L’Italia riconobbe un risarcimento per i crimini coloniali commessi durante la dominazione (1911-1943) con un contributo di 250 milioni di dollari per 20 anni, da utilizzare per costruire infrastrutture, in cambio dell’impegno libico a non permettere più l’utilizzo dei propri porti ai profughi. La caduta del regime e la guerra civile che ne seguì, impedì di dare attuazione al piano. Anzi in una condizione di grave crisi economica, il traffico di profughi divenne una delle risorse fondamentali per una parte del Paese. Dopo diversi tentativi ed impegni UE per garantire risorse in cambio della chiusura delle frontiere, si giunse il 2 febbraio del 2017 alla ratifica da parte del Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e per il Governo di RiconciliazioneNazionale dello Stato di Libia, di Fayez Mustafa Serraj, Presidente del Consiglio Presidenziale del Memorandum. Si tratta di una “lettera di intenti”, non di un accordo fra Stati che, in quanto tale, avrebbe dovuto essere sottoposto al vaglio del parlamento, in 8 articoli, con cui i contraenti si impegnano a fermare “l’immigrazione illegale” pressoché, con ogni mezzo. Dai dispositivi elettronici per controllare i confini meridionali della Libia, al mai realizzato supporto economico e di infrastrutture ai paesi di emigrazione, agli investimenti per rimpatri “volontari” dalla Libia, all’addestramento per la gestione dei “centri di accoglienza” (centri di detenzione specializzati in violenze e torture), alla formazione della cosiddetta Guardia costiera libica. Nello stesso periodo, nonostante la Libia non sia considerata un “porto sicuro” in cui far sbarcare profughi, venne istituzionalizzata la “zona SAR” (Search and rescue, ricerca e salvataggio) di competenza libica, di una vasta area del Mediterraneo Centrale. In sintesi chi intercetta la richiesta di soccorso di un natante che è in quella zona, non deve soccorrerla ma avvisare le autorità libiche in maniera tale che saranno costoro a decidere se prestare soccorso, riportando le persone in Libia o se lasciarle affogare. Il combinato disposto fra questo, il Codice di condotta con cui l’allora ministro dell’Interno Minniti, bloccò l’azione umanitaria di salvataggio di imbarcazioni di ong europee, l’assenza di assetti istituzionali come quelli dell’agenzia Frontex per soccorrere i naufraghi, hanno portato in 5 anni ad un incremento dei morti in mare malgrado una diminuzione degli arrivi, al respingimento collettivo e in quanto tale illegale, di 85 mila persone (spesso soggetti vulnerabili), a scontri armati in mare aperto dove i militari libici hanno sovente sparato per allontanare i soccorsi provenienti da altri Paesi e per terrorizzare le persone imbarcate nella fuga. Il Memorandum ha durata triennale, se uno dei due contraenti, almeno 3 mesi prima non interviene per modificarne o annullarne la natura, si intende automaticamente rinnovato. Sarà difficile, con questa maggioranza di governo, che tale testo venga stracciato. Per denunciare la complicità in crimini contro l’umanità che la sua applicazione comporta, gruppi di cittadine e cittadini accomunati da profonda indignazione, stanno organizzando, spontaneamente, forme di disobbedienza civile. L’obiettivo è quello di riportare l’attenzione di un’opinione pubblica spesso anche disinformata e di una politica complice o assente. Il 15 ottobre, a Roma, lungo Via dei Fori Imperiali, gli esponenti di alcune ong hanno organizzato un primo momento, il 19 ottobre, con un’azione non violenta, 6 donne e un uomo, espressione di diverse realtà di base, sono riusciti ad incatenarsi davanti al parlamento in Piazza Montecitorio. Sono rimasti tutto il giorno dopo essere stati identificati dalle forze dell’ordine, hanno scandito slogan, esposto cartelli e striscioni, richiamato tanto l’attenzione di chi passava incuriosito nella piazza che dei pochi parlamentari sensibili a tali tematiche. Fra coloro che si sono fermati a parlare con i manifestanti, Angelo Bonelli, Nicola Fratoianni, Andrea Orfini e Abubakar Soumahoro. I leader dei partiti del governo e delle maggiori forze di opposizione non hanno ritenuto opportuno incontrarli. Dal 19 all’ultimo giorno utile, altre iniziative verranno messe in campo, alcune sono già previste nei giorni prossimi. Saranno eclatanti ma non violente, saranno i corpi di uomini e donne che si metteranno a disposizione per testimoniare che il crimine non può continuare ad essere esercitato nel silenzio. Ci sono inchieste internazionali in corso che potrebbero portare responsabili libici e italiani sul banco degli imputati per la gravità dei crimini commessi. Una vergogna per il Paese di cui, almeno una parte sana della cosiddetta società civile, non intende considerarsi complice.

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