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Dum Romae consulitur…

Saguntum expugnaturMentre a Roma si discute Sagunto è espugnata scriveva Tito Livio, nelle Storie, biasimando l’irresolutezza del Senato romano nei confronti di Annibale. Mentre a Bruxelles ci si interroga su cosa fare, diremmo oggi per parafrasare Livio, e a Roma si dibatte sul ruolo e sulle colpe dell’Europaassolvendosi politicamente mediante un transfert assolutorio di responsabilità migliaia di migranti continuano a arrivare a Lampedusa con ogni mezzo e a riversarsi in massa su quella sottile linea di confine europeo che sono le sue spondemediterranee, fino a superare, nel numero, gli stessi residentivittime di un assedio che li ha costretti a capitolare.   E che ha trovato ancora una volta i governi in carica impreparati a gestirne l’impatto sul territorio e le ricadute sul piano sociale, economico e della pubblica opinione, divisa fra l’ostilità fomentata dalla destra, che insiste per respingerli, e la solidarietà della sinistra che predica, con sdegno, l’accoglienza indiscriminata pur senza mai dire come possa essere compiutamente realizzata.

Eppure, se proviamo a spostare lo sguardo dalla Lampedusa sommersa dai migranti e dalle beghe politiche interne, con relative polemiche nei confronti dell’Europa, non possiamo nonsottolineare due fatti di rilievo su cui appuntare l’attenzione. Il primo, è che gli arrivi di migranti sono un’emergenza che ormai non è più tale avendo raggiunto, da tempo, le dimensioni di un fenomeno strutturale irreversibile. Il secondo, è che nonostante i ripetuti allarmi riguardo a un fenomeno classificato come epocale ci si ostina ancora a non volerlo affrontare come tale. Ossia, dispiegando il genere di provvedimenti speciali che un eventospeciale fonte di un mutamento storico da registrare fra i nuovi assetti globali comporta per essere gestito come conviene. Che non sono i centri di detenzione per migranti, da far allestire dalla difesa italiana, dove confinare gli irregolari, come annunciato con piglio decisionista dalla Presidente del Consiglio. Che non scoraggeranno le partenze di altrettanti disperati per i quali la detenzione in Italia è meglio della morte in Africa. Ma provvedimenti speciali finalizzati a produrre risultati speciali. Misure innovative, sul piano legislativo e su quello operativo, che siano commisurate al genere di situazioni che il fenomeno oggidetermina e in grado di affrontarlo senza sotterfugi. Sia a lungo termine che nell’immediato. Cominciando per esempio, a sperimentare unangolazione prospettica differente, che modifichi i connotati peggiori del problema – come quelli falsamente allarmistici per opposte ragioni di propaganda, fra i tanti – e ne faccia intravedere altri, meno esasperati, e che si prestano al ragionamento civile di cui uno Stato democratico dovrebbe, per suo carattere, essere fiero.

Smettendotanto per cominciare a avvertire gli effetti dell’angolazione migliorativa da adottaredi guardare tutti i migranti, e i nuovi arrivati, come numeri privi di volto che non sia quello della pietà suscitata dalle loro vicissitudini o del timore che degli estranei diversi da noi incutono – amplificati entrambi dalla risonanza data dai media – quando si riversano in massa su spiagge e porti. Considerandoli, piuttosto, uomini, donne e ragazzi dotati di una personalità che è il bagaglio di ricchezza da cui sono stati accompagnati durante tutto il loro viaggio, custodendoloignari nelle proprie mani. E cominciare innanzitutto a chiedersi impiegando professionalità in grado di darci le corrette rispostechi sono. Quale storia e quale identità soggettiva e culturale possono esibire. Che cosa sanno fare e quale attività svolgevanoprima di partire. Che cosa sono in condizione di fare o di imparare per inserirsi dignitosamente nel mondo, in cui ora sono volontariamente approdati. Operazioni semplici e tuttavia – se preliminari a successivi passaggi burocratici che formalizzino un’accoglienza diversamente impostata sufficienti a porre ilproblema sotto una luce meno drammatica per tutti, senza i toni i toni quasi da guerra in corso usati recentemente. L’arrivo di cento persone che conoscono un mestiere dal sarto al fornaio o quale altro sia – oppure hanno ricevuto un’istruzione di un qualche genere e grado, suscita un’impressione ben diversa nel comune sentire – e ne facilita un ricollocamento ragionato dall’arrivo di cento persone di cui tutto si ignora se non la volontà di fuggire dal loro Paese per entrare nel nostro.  Decisi, a tutti i costi, a non ritornarci, a dispetto dei rimpatri tanto – ma a vuoto, ovviamente, perché quasi impossibili da eseguiresbandierati. Persone alle quali si guarda con compassione o con sospetto o con fastidio. Ma di cui non si sa, nel loro insieme, che fare. Mal tollerati persino da chi, per il suo ruolo amministrativo, è costretto a assumersi l’onere di organizzarne l’accoglienza nel Comuni.

È un piccolo cambio di passo d’ordine culturale che, però, favorisce un cambio di percezione del problema da parte dell’opinione pubblica. La quale non merita di essere frastornata da una propaganda politica fine a se stessa ma, piuttosto, di acquisire consapevolezza del fatto che la dimensione umanitaria del problema può rimanere tale – e non scadere nella criminalizzazione bieca o nel pietismo senza scopo – soltanto se mantiene una propria linea di condotta pragmatica, improntata alrealismo e attenta alle persone, siano i propri cittadini o altri, senza pregiudizi.

Una linea, certo, che comporta uno sforzo organizzativo nuovo – speciale, appunto, sia sul piano legislativo che attuativoda parte del governo. Oltre a un atteggiamento più riflessivo da parte di tutti. I media per primi, cui tocca l’onere di una corretta informazione avendo la responsabilità dell’opinione pubblica. Ma è una linea che val la pena tentare di esplorare per far sì che i migranti possano essere considerati in Italia, se non in Europa – come una fonte di nuovo benessere, per sé e per gli altri, il cui getto attende solo di essere messo giudiziosamente alla prova.Anche, e soprattutto, quelli – sono la stragrande maggioranza – non passati attraverso i canali di ingresso regolari, che già applicano certi filtri selettivi, ma che possono funzionare solo in condizioni di assoluta normalità.

Forse è questo il vero sovranismo da rivendicare. Saper pensare – senza contravvenire alle norme vigenti, ma applicandovi nuovi criteri attuativi, in linea con le circostanze sopravvenute – qualcosa di idoneo a trattare in modo autentico situazioni che si verificano nel perimetro nazionale ottenendo, nel farlo con perseveranza e la giusta dose di discernimento, risultati che possono essere apprezzati anche al di fuori di esso. Condizione, peraltro, che si può supporre indispensabile per stare in Europa con una qualche autorevolezza. Lontano da proclami più o meno bellicosi lanciati inutilmente, come altrettanti fuochi d’artificio. O da iniziative diplomatiche di facciata, come i memorandum africani che rischiano, nella precaria situazione geopolitica attuale, di rimanere irrimediabilmente sulla carta.

Siamo tutti migranti, in fondo, noi europei. Fin dai tempi preistorici, quando le prime tribù indoeuropee attraversavano le vaste distese dell’Eur-asia alla ricerca del luogo d’elezione dove stanziarsi. E dopo, quando scontri, guerre e invasioni e poi i regni e gli imperi che da questi eventi sono nati hanno mescolato etnie e culture prima vissute separate.  Di questo amalgama noi tutti oggi siamo il risultato e delle storie umane che lo hanno prodotto rechiamo, indelebile, l’impronta culturale che ci rende europei.

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