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Delitto Attanasio|Iacovacci/Milambo: famiglia ambasciatore non più parte civile nel processo. Italia: no a condanna a morte

Il tribunale militare di La Gombe, a Kinshasa, ha accolto la richiesta di rinuncia alla costituzione di parte civile avanzata dall’avvocato della famiglia dell’ambasciatore Luca Attanasio, una delle tre vittime dell’agguato al convoglio del World food programme del 22 febbraio 2021 sulla Route nationale 2 nel Nord Kivu, provincia della Repubblica democratica del Congo.
Quel giorno persero la vita anche il carabiniere scelto Vittorio Iacovacci, che eroicamente cercato di salvare la vita al suo capo missione facendo da scudo con il suo corpo, e l’autista del Wfp Mustapha Milambo.
Questa la notizia più significativa giunta dal carcere di Ndolo, sobborgo della capitale congolese dove si è svolta l’ultima udienza del processo a carico di sei imputati, uno giudicato in contumacia perché in fuga.
Marco Prince Nshimimana, indicato come esecutore materiale del delitto, Bahati Kiboko,Murwanashaka Mushahara André, Issa Seba Nyani, Amidu Sembinja Babu Amos Mutaka Kiduhaye, conosciuto come Aspirant, il latitante, sono ritenuti responsabili del triplice omicidio.
Notificata anche la richiesta dello Stato italiano di non emettere nei loro confronti, se ritenuti colpevoli, una condanna alla pena capitale come chiesto dal procuratore ma alla carcerazione.
Una posizione diversa rispetto a quella della famiglia di Attanasio.
Il nostro governo ha infatti deciso di permanere nel procedimento giudiziario a rischio di sentir proclamare comunque una sentenza scomoda, anche se in Congo non vengono eseguite condanne a morte da 20 anni.
Il padre dell’ambasciatore, Salvatore Attanasio, ha chiarito in modo inequivocabile il punto sulla questione:  “Aggiungere morte a morte non serve a nulla. Se non a portare altro dolore. Noi siamo contrari, Luca sarebbe stato contrario”,
L’ingegnere Attanasio, come il legale che rappresenta i familiari del diplomatico, l’avvocato Rocco Curcio,  ha ricordato come la pena di morte sia contro i principi dell’Italia.
“Lo dicono la nostra Costituzione, il nostro senso civico, la nostra formazione cattolica. Sono gli stessi principi in cui si identificava nostro figlio. La pena capitale non potrà mai alleviare il dolore della nostra famiglia”, ha aggiunto evidenziando anche che il procuratore militare del processo congolese ha sostenuto che non si è trattato di un agguato né di un tentativo di rapimento degenerato, come ricostruito inizialmente, ma di una vera e propria esecuzione.
Con un obiettivo mirato, aggiungiamo noi: l’ambasciatore italiano in Congo.
Resta da comprendere il perché e chi siano i mandanti.
Ma non sarà certo possibile appurarlo in questo processo, da cui sono emerse innumerevoli contraddizioni.
I difensori degli accusati hanno chiesto l’assoluzione di tutti gli imputati presenti, adducendo che i loro assistiti “non hanno commesso il reato o comunque sussistono dubbi sulla loro responsabilità”.
Tuttavia, il pm ha replicato che la prova della colpevolezza è nei “dettagliati verbali di confessione in cui ciascuno di loro descrive il proprio ruolo”.
Dichiarazioni estorte con la tortura, sostengono gli avvocati della difesa,  e ampiamente smentite durante il processo da tutti gli accusati.
La Corte, che si è brevemente riunita in camera di Consiglio, ha rinviato l’udienza. La sentenza è prevista entro dieci giorni.
Che questo procedimento giudiziario sia stato viziato da innumerevoli irregolarità e incongruenze è stato appurato da molti osservatori che hanno avuto accesso al dibattimento, iniziato il 12 ottobre del 2021, tra cui chi scrive.
E poi pesano le omissioni.
Testimonianze e fatti importanti non sono mai entrati nel processo a Kinshasa che non può essere considerato il mezzo per ottenere piena verità, e dunque giustizia, per Luca, Vittorio e Mustapha.

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