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Covid-19, Zimbabwe tra isolamento e paura di non farcela

L’Africa, per quanto se ne parli ancora poco, è un’osservata speciale durante la pandemia. L’impatto che quest’emergenza sanitaria potrebbe avere su alcuni paesi potrebbe essere devastante: economie già basate soprattutto su lavoro informale, epidemie pregresse (colera, malaria, febbre tifoidea, dissenteria), scarsa capacità di monitoraggio e rilevamento dei contagi, sistemi sanitari fragili uniti a scarse infrastrutture e carenza di servizi base come l’accesso all’acqua, fanno temere il peggio.

Il nostro viaggio nei paesi dove lavoriamo ci porta questa volta in Zimbabwe, paese fiaccato da una forte inflazione, da una sequela di malattie endemiche e una decennale epidemia di colera, e che solo da fine marzo ha deciso per un isolamento totale.

“Ma davvero giocano con gli stadi vuoti?” chiedeva l’autista un po’ perplesso fino a qualche tempo fa – ci racconta nel nostro blog #quantestorie Cosimo Tendi, cooperante COSPE nel paese – e questo era stato finora l’unico commento sulla pandemia in corso. Poi il virus è arrivato prima in Sudafrica, dove lui prende le medicine per il diabete tramite il fratello che lavora lì, dove vanno a scuola molti dei figli delle famiglie della classe media e, soprattutto, da dove arrivano la maggior parte delle merci necessarie per un Paese che non produce quasi nulla di suo. Poi i primi casi sono arrivati anche in Zimbabwe e ora la situazione sembra molto più reale, preoccupante”.

Le previsioni sono attualmente di tre settimane di lockdown, ma le date potrebbero subire variazioni. Ad oggi i casi di Covid-19 rilevati sono bassi: 1 decesso, 3 confermati e 8 ricoverati. Zero i nuovi contagi. Ma sembrano dati parziali e poco aggiornati. Per questo il presidente Emmerson Mnangagwa lo scorso 23 marzo ha esortato tutti i cittadini a cambiare i propri comportamenti individuale e di igiene e di rimanere a casa, eccetto per gli spostamenti essenziali, come nel resto del mondo.

Per garantire l’attuazione del blocco, il presidente ha annunciato che verranno schierati i militari. Tra le altre misure, le frontiere sono chiuse da tempo e il trasporto pubblico è stato sospeso, ad eccezione dello ZUPCO (Zimbabwe United Passenger Company), controllato dal governo, e degli autobus di servizio pubblico. Solo una persona per famiglia può uscire per acquisti di beni di prima necessità e chiunque venga colto a infrangere questa direttiva sarà soggetto a una multa o a una pena detentiva non superiore a 12 mesi.

Ma il dato reale è che le misure preventive COVID-19 messe in atto dall’Organizzazione Mondiale della sanità funzioneranno solo per pochi privilegiati: qui l’autoquarantena è quasi impossibile per molta parte della popolazione che vive in situazione di sovaffollamento anche in casa (famiglie di 10 persone che vivono in una stanza sono frequenti) e che l’acqua è per molti un bene di lusso. Questo scenario si ritrova, purtroppo, nella maggior parte delle aree urbane in rapida crescita in tutta l’Africa e probabilmente renderà difficile la gestione della trasmissione del coronavirus.

“Il vero problema qui – racconta Federica Masi, responsabile COSPE per l’Africa australe– è la mancanza di sistemi strutturati di distribuzione di acqua e di fognature. Per i residenti nelle periferie densamente abitate e negli insediamenti informali dello Zimbabwe, la salute e l’igiene sono sempre state una sfida: in sobborghi come Mbare, il più grande di Harare, e anche il più popoloso e antico, rubinetti comuni, strutture di abluzione condivise e fognature aperte sono un rischio per la salute da decenni”.

Per lo Zimbabwe per altro, la minaccia di un grave focolaio di COVID-19 non sarebbe potuta arrivare in un momento peggiore: negli ospedali scarseggiano le medicine, materiali essenziali e personale sanitario. Medici e infermieri protestano costantemente per le loro terribili condizioni di lavoro. Il governo ha dimostrato di non essere in grado di fornire abbastanza strumenti per le istituzioni mediche gestite dallo stato. Inoltre, le notevoli carenze di elettricità nel paese (i cittadini subiscono anche 18 ore di interruzione elettrica giornaliera) minacciano il funzionamento dei servizi essenziali e degli ospedali, pronto soccorso inclusi.

“Le difficoltà di molti zimbabwani – continua Federica Masi – sono senza precedenti. In un paese in oltre l’80% dei cittadini non ha un lavoro formale, la maggior parte della popolazione vive a stretto contatto. Per molti la possibilità di fare una scorta di beni essenziali per il blocco di 3 settimane non è che un sogno. A questo si aggiunge il fatto che il governo, a corto di liquidità, non è in grado di fornire reti di sicurezza a chi ne ha bisogno né di sostenere le imprese in difficoltà”.

Anche se tutti comprendono la necessità di adottare misure a contrasto del coronavirus, per lo Zimbabwe il blocco sarà una grande sfida: i cittadini sono intrappolati tra la morte a causa di un virus pericoloso che ha devastato il mondo, o la morte per fame poiché non possono provvedere alle loro famiglie durante l’isolamento.

“Per molti stare in casa – conclude Cosimo Tendi – significa non avere accesso ad alcuna fonte di reddito e quindi di sostentamento, il lockdown pone davanti a una alternativa agghiacciante: rischiare di prendere una malattia potenzialmente mortale oppure avere la certezza di non sfamare le proprie famiglie”.

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