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Egitto, lo sciopero della fame di Alaa: quasi sei mesi di calvario per la libertà e la dignità

“Non riesco a togliermi dalla testa com’era Alaa durante l’ultima visita. Semplicemente, non ce la faccio”. Mona Seif, la maggiore delle sorelle di Alaa, condivide con noi, con il pubblico dei social, la preoccupazione estrema per le condizioni del prigioniero di coscienza più famoso in Egitto. Il più famoso tra gli oltre sessantamila, per la massima parte sconosciuti, che sopravvivono negli istituti penitenziari egiziani, tra le violazioni del sistema giudiziario nazionale e i diritti negati e i soprusi all’interno del sistema carcerario.

Alaa è oggi, 24 settembre, al giorno 176 di sciopero della fame. Il suo calvario si avvicina a passi veloci ai sei mesi di privazione del cibo per riacquistare libertà e dignità, dopo quasi nove anni in galera. Quasi nove anni trascorsi per tutto il tempo, salvo gli ultimi quattro mesi, nel carcere di massima sicurezza di Tora, al Cairo, in una cella senza materasso, privato di tutto. Anche dell’ora d’aria e di un po’ di sole.

“Alaa appariva estremamente malnutrito quando l’ho visto”, scrive su Facebook Mona Seif. “Sì, capisco che è stato lui a scegliere di fare lo sciopero della fame, ma perché spinto a compiere questo passo estremo dall’ingiustizia insensata con cui deve avere a che fare, e dal fallimento del governo britannico di assicurargli almeno la visita consolare in carcere. Negli stessi minuti, il governo britannico sta investendo milioni di sterline in Egitto, complimentandosi per gli sforzi e le politiche messe in atto dall’Egitto prima di #Cop27. E pensano anche che gli crediamo. Stanno facendo il massimo per salvare Alaa? Mi dispiace, io non ci credo più”.

Difficile, impossibile descrivere lo stato di una persona che digiuna da quasi sei mesi. Nell’epoca degli scatti che immortalano qualsiasi cosa, l’assenza di una fotografia, l’assenza dell’immagine di Alaa malnutrito per il lungo digiuno può rendere irreale la sua stessa battaglia. Di qui, anche, la preoccupazione estrema della famiglia, che sperava molto in quel passaporto forte, nel passaporto britannico come un passepartout verso la libertà. Ai tornaconti energetici e agli investimenti di Londra, si è anche aggiunta la crisi al vertice dei conservatori britannici, le dimissioni di Boris Johnson, le primarie che hanno visto Liz Truss vincere e insediarsi a Downing Street. E infine la morte della regina Elisabetta II, seguita dall’iter dei funerali durato più di dieci giorni. Una paura, un limbo di settimane e settimane che hanno – è facile ipotesi – rallentato qualsiasi negoziato sulla liberazione del cittadino britannico Alaa Abd-el Fattah.

“Visto che non ho una foto di Alaa che lo ritragga nelle condizioni attuali, metto al suo posto una foto di Gandhi mentre è in sciopero della fame”, scrive Mona Seif condividendo una foto in bianco e nero del Mahatma magrissimo durante uno dei suoi digiuni. È un modo in cui rendere immagine quello che Mona Seif aveva tentato di descrivere appena uscita sabato scorso dal carcere di Wadi al-Natrun, dopo una visita accordata a lei e a sua madre.

“In tutta la mia vita non l’ho mai visto così magro, così fragile, come una pagliuzza. Alaa scompare davvero…. sorride, è bellissimo, ma scompare”, scrive Mona Seif, che in un tweet successivo prova ad assorbire la possibilità che Alaa non ce la faccia. Non riesca a uscire vivo dal carcere. “Possiamo solo concentrarci a mettere in atto una lotta di quelle infernali nei loro confronti”, cioè nei confronti di chi esercita il potere di tenere in carcere Alaa e di negargli tutti i diritti. Possiamo “onorare l’amore eccezionale che ci unisce come famiglia. Forse questo è ciò che ha cercato di dirci. Senza disperazione e senza speranza. Facciamo… esistiamo… amiamo… trionfiamo… a prescindere da come vada a finire”.

Nelle visite degli scorsi mesi, Alaa aveva detto alle sorelle di non concentrarsi sullo sforzo di farlo uscire dal carcere, ma sul far pagare caro al regime di Abdelfattah al-Sisi la sua morte. Alaa era, a un certo punto, andato oltre, facendo del suo sciopero della fame non un gesto individuale, ma il gesto politico per tutti prigionieri detenuti ingiustamente in Egitto. Un gesto con un elenco ben preciso di richieste, soprattutto quella della scarcerazione di chi è in detenzione preventiva anche da anni.

Nel silenzio dei decisori, si sente solo – seppure flebile – la voce di chi non ci sta ad accettare che un uomo muoia perché esercita la sua libertà di pensiero, la sua incredibile profondità di analisi, la sua richiesta di dignità.

 

 

 

 

 

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