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Egitto, a 4 anni dall’uccisione di Giulio Regeni situazione diritti sempre più grave

A quattro anni dall’uccisione di Giulio Regeni la situazione dei diritti in Egitto è ulteriormente peggiorata. Alle proteste iniziate lo scorso settembre il governo ha risposto con una repressione senza precedenti. La tensione è crescente, palpabile.
Per impedire nuove manifestazioni dopo il sit-in del 27 settembre in piazza Tahrir, sono stati istituiti posti di blocco informali in centro a Il Cairo e nelle altre città egiziane interessate dai tumulti.
Chiunque graviti intorno all’epicentro delle rivolte, attuali e passate, viene fermato e costretto a consegnare il telefono. In molti casi ai controlli seguono arresti arbitrari.
A denunciarlo l’organizzazione non governativa “Belady”, che ha segnalato da settembre a dicembre dello scorso anno migliaia di sparizioni forzate. dai 2 ai 10 giorni. Secondo Amnesty International le persone fermate vengono  accusate di “appartenenza a un gruppo terroristico” e di “uso improprio dei social media”.
Anche decine di minorenni sono stati arrestati nell’ondata di fermi che nel giro di poche settimane ha portato in carcere 5 mila egiziani.
Il regime di al Sisi teme l’ampliarsi del malcontento di chi non accetta di vivere sotto la pressione di un governo abituato a stroncare con violenza ogni forma di opposizione.
Non va meglio per la libertà di informazione. Tanti i blogger e i giornalisti in carcere. Come Esraa Abdel Fattah, fermata lo scorso ottobre e portata in un luogo sconosciuto.
“Per giorni non è riuscita a contattare nessuno – racconta Khaleed Ali, uno dei suoi avvocati – Quando l’abbiamo vista ci ha raccontato che l’hanno picchiata, presa a calci e torturata in vari modi. L’hanno tenuta sveglia per ore, hanno tentato di asfissiarla per convincerla a sbloccare il telefono per poter accedere alla posta elettronica e ai social”.
L’uso della tortura e delle ‘sparizioni forzate’ nei confronti di oppositori e attivisti da parte dei Servizi di sicurezza, di cui abbiamo sperimentato la spietatezza con l’omicidio brutale di Giulio Regeni, è sistematica come la violazione dei diritti di tutti i cittadini e gli arresti senza alcuna base giuridica.
Ormai è prassi che al momento del fermo dei malcapitati di turno non sia formulata alcuna imputazione e la loro detenzione preventiva sia prolungata ben oltre il consentito. Attendono anche mesi prima di comparire davanti a un giudice.
Lo sa bene Mohamed Lofty, per anni attivista e ricercatore di Amnesty International. Direttore della Commissione egiziana per i diritti umani e le libertà, nonché consulente della famiglia Regeni, ha dovuto assistere impotente all’arresto di sua moglie Amal Fathy, Nel maggio del 2018 fu prelevata dai servizi di sicurezza dal suo appartamento insieme al figlio di tre anni e allo stesso Lofty, che aveva potuto lasciare il carcere con il bambino grazie alla doppia cittadinanza, egiziana – svizzera.
Oggi Amal è a casa, con l’obbligo di firma una volta al giorno al posto di polizia nel quartiere di residenza. Ha pendente su di sé una condanna a due anni per aver denunciato il sistema delle molestie sessuali in Egitto. La pena è sospesa ma non può lasciare il Paese.
“Non è sicuro da noi in questo momento, c’è grande tensione per le nuove rivolte contro al Sisi” spiega Mohamed “ma cerchiamo di affrontare la quotidianità serenamente. Nostro figlio ha iniziato da poco la scuola materna, vogliano che viva l’infanzia come i suoi coetanei”.
Nonostante le minacce che sottotraccia accompagnano la loro vita, il direttore di Ecrf è determinato a proseguire il suo impegno: “Fermare il mio lavoro non garantirebbe maggiore sicurezza ad Amal e a nostro figlio, al contrario dimostrerebbe al governo che la sua tattica funziona e che attraverso le pressioni può ottenere ciò che vuole”.
Non da lui. Su questo Mohamed Lofty è fermo e resta a Il Cairo anche per monitorare quella che definisce “la più vasta repressione dall’ascesa al potere di al-Sisi”.
I manifestanti sono i primi segni visibili di instabilità politica negli ultimi sei anni. Le migliaia di arresti dei mesi scorsi indicano che il governo consideri il malcontento di chi scende in piazza a protestare una minaccia.
Le contestazioni nei confronti del governo e del presidente sono state generate dalle accuse di un imprenditore egiziano in esilio in Spagna, Mohammed Ali, che si è arricchito con contratti per la costruzione di edifici e opere per le Forze armate.
Ali ha diffuso in rete video in cui parla di sperpero di denaro pubblico e di corruzione dilagante nel Paese, anche dello stesso al-Sisi.
Ali, faccia e attitudine da attore (ha recitato in alcuni film), è il tipo con cui ti siedi al bar e ti fai un narghilè il giovedì sera in Egitto. Tutti lo capiscono, lo ascoltano, piace.
Sa entrare in ‘connessione’ con la gente.
Gli egiziani erano già consapevoli della corruzione massiccia nel sistema e che gran parte di essa fosse collegata al controllo che l’esercito ha sull’economia.
Ali, che conosce bene quel sistema, l’ha solo dimostrato con nomi, numeri, date. E aver ammesso pubblicamente che anche lui era corrotto lo ha reso più credibile, favorendo il successo virale del suo appello a manifestare ogni Venerdì dopo la Preghiera.
Dodici giorni dopo la pubblicazione del video, che aveva registrato un miliardo e mezzo di visualizzazioni, è arrivata la risposta di al-Sisi.
“Si, sto costruendo palazzi presidenziali. E ne costruirò altri. Ma non lo faccio per me” la replica laconica alle accuse.
Le dichiarazioni del presidente si sono rivelate la spinta decisiva che ha incoraggiato i manifestanti a scendere in piazza, senza avere un partito o un’organizzazione alle spalle.
Alle denunce social di Ali ne sono seguite altre. La maggior parte in forma anonima. Tra queste potrebbero esserci le voci di personale militare.
Il tutto suggerisce che quella in atto non sia tanto una rivolta popolare, quanto le prime avvisaglie di un colpo di stato lento e silente.
Elementi all’interno dell’esercito, che un tempo erano fedeli all’ex-generale diventato presidente, ora sarebbero pronti a destituirlo.
Dai video diffusi in rete emergono spaccature crescenti all’interno dell’establishment militare.
Non è un caso che alle ultime elezioni presidenziali in Egitto, la maggior parte di chi voleva sfidare al-Sisi erano ex-militari.
Non si sarebbero candidati se non avessero avuto un sostegno all’interno. L’accusa di cattiva gestione dell’esercito da parte dell’ex generale eletto presidente per due mandati, che avrebbe favorito il proprio profitto, rappresenta un problema serio, la principale preoccupazione principale di Sisi.
Non è solo questione di un dittatore fuori controllo e della gente in rivolta che ne chiede le dimissioni.
Chi conosce bene l’apparato statale dell’Egitto ritiene che all’interno del governo si stia già pensando al dopo al-Sisi ed è pronto a finalizzare una ‘soluzione’ che potrebbe non tardare ancora molto.
Tutto dipende dalla tenuta dell’ex generale e dal malcontento degli egiziani che, seppur sopito, cova nei sobborghi dove la fame si fa più sentire. Se i prezzi dei beni di prima necessità e del carburante, già ampiamente ritocatto, dovessero alzarsi ancora l’Egitto potrebbe esplodere come una polveriera.

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