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Democrazia e democrazie africane, fra narrazione politica e realtà vissuta

Democrazia è un concetto ben noto al mondo occidentale che lo ha ereditato da una tradizione di pensiero antica come la sua cultura storica. La parola demokratìa è stata coniata, infatti, dai filosofi greci, Platone e Aristotele nella fattispecie, per definire una forma di governo della polis – la città-stato che nella civiltà ellenica era il centro amministrativo e politico della vita sociale – in cui i distretti rurali assumono un ruolo decisionale.

Presa in prestito dalle lingue moderne d’Europa, designa una equilibrata distribuzione del potere, nel rispetto di tutte le componenti della società civile, intesa a evitare prevaricazioni di una parte sull’altra e a garantire la libertà delle persone e la tutela dei loro diritti.

Ma questa accezione – per noi familiare – è quella che al termine ha dato la storia. Il suo senso letterale – testimoniato dall’etimo,che della parola è il cuore perché conserva le chiavi concettuali del suo significato – è “la forza esercitata da una porzione, comunque quantificata, in virtù del suo peso”.

L’antica espressione greca demo-kratìa, infatti, è un composto formato da due parole: demos e kratìa. La prima, demos, è un antico termine indoeuropeo il cui significato originario era “suddivisione in porzioni d’una quantità”. Kratìa è anch’esso un termine di origine indo-europea che, in questa antica lingua dei nostri progenitori – dalla quale le lingue d’Europa derivano e, con esse, l’impronta storica che la cultura europea conserva – significava “forza, potenza”.

La democrazia è, dunque, un genere di prassi politica che fa della quantità – calcolata su grandezze sia numeriche che d’altro ordine – il parametro sul quale misurare il peso che una compagine sociale rivendica di avere rispetto alle altre nel consesso sociale.Consiste, insomma, se prestiamo fede alla sua etimologia – e l’etimologia ci racconta sempre la verità perché è inconfutabile – nella “superiorità di chi possiede la forza maggiore.

Nonostante il trascorrere dei secoli, la parola non ha mai perduto il suo marchio etimologico. La democrazia si è sempre risolta in un computo di pesi e misure e nella legittimazione del potere in termini di forza maggiore posseduta da una parte rispetto a un’altra. È solo il genere e il grado di forza a fare, con il suo peso, la differenza fra una democrazia e l’altra nel mondo.

Esportare la democrazia è stata – come sappiamo – una tentazione cui il mondo occidentale ha più volte ceduto. Soprattutto in occasione di situazioni politiche estreme e dagli effetti disastrosi e apparentemente insanabili. Un progetto che – nell’area euro-mediterranea in particolare – le cosiddette primavere arabe hanno contribuito a far sembrare verosimile, ma che si è ben presto rivelato un fallimento in quanto fondato su un equivoco.

Poiché ogni regime costituito – impostato su rapporti di forza, comunque essi siano risolti nella prassi di governo – possiede già i requisiti democratici reclamati da chi pretende di trasferirvi i propri.

Ogni forma di governo della società, infatti, prima di diventare qualcosa di diverso per via della propria rielaborazione culturale interna, è già una democrazia, fondata – secondo il senso letterale della parola – sul primato d’una grandezza, misurata sulla quantità, che esercita il potere decisionale su tutti per via della forza che ilsuo maggior peso, in un certo raggruppamento sociale, le conferisce.

Che il peso consista nella grandezza numerica, nella superiorità delle armi, nel grado di violenza delle azioni compiute, nel terrore che si riesce a incutere o nei vantaggi che si è in grado di assicurare ai propri sostenitori, nel fanatismo religioso o nel fascino prepotente di un ideale, si tratta d’una circostanza assolutamente secondaria. Sempre è questione di una forza maggiore, rispetto ad altre, che detiene, per questa superiorità guadagnata, i posti di potere e detta le sue condizioni al resto della società. Persino il numero di voti ottenuti in libere elezioni, ritenuto il segno d’una democrazia avanzata, rappresenta un criterio di valutazione politica d’ordine assolutamente quantitativo. Ed esempi dello scarso rendimento, per il progresso sociale e il benessere collettivo, di questo genere di grandezze non sono, nel tempo, certo mancati.

Le sole correzioni che hanno riguardato i governi democratici, con la regolamentazione degli spazi di potere, sono state quelleintrodotte dal liberalismo che, a partire dal XVII° secolo, si è affermato nel mondo occidentale, sostenendo il principio dello Stato di diritto come fattore inviolabile della politica d’ogni Nazione.

La democrazia da esportare, pertanto, dovrebbe essere, eventualmente, la democrazia liberale. Ossia la forma di democrazia corretta dalla dottrina politica che dell’equilibrio dei rapporti di forza interni a ogni società e della garanzia dei diritti e delle libertà individuali contro l’autoritarismo ha fatto la propria cifra distintiva.

Un obiettivo che rischia di diventare velleitario quando si scontra – là dove dovrebbe trovare la propria collocazione – con l’assenza dei presupposti culturali che rendono plausibile tale modello politico. Tant’è vero che ogni tentativo del genere è sempre stato avvertito come un’illecita ingerenza negli affari interni d’un altro Stato, suscitando reazioni che hanno acuito le tensioni invece di appianarle e accelerato il deteriorarsi delle situazioni. Accentuando, per entrambe le parti coinvolte, il senso letterale della parola democrazia quando perde l’aggettivo liberale.

Dalla Libia all’Egitto – per citare i Paesi dell’Africa più vicini a noi – gli esempi non mancano. La situazione si ripete in molti Stati dell’Africa centrale, ii quali vivono l’epoca della decolonizzazione in modo controverso, non avendo saputo riempire lo spazio vuoto di prospettive democratiche diverse da quelle della lotta armata fra fazioni rivali che si contendono il potere. Con l’appoggio di potenze straniere – europee e asiatiche – che, in cambio, partecipano alla spartizione delle ricchezze del territorio in modo spregiudicato, facendo valere – democraticamente – il peso del loro sostegno.

Le recenti elezioni democratiche, svoltesi nella Repubblica Centrafricana, hanno registrato scontri violenti fra gruppi armati, sostenitori di uno o di un altro candidato, che non accennano a placarsi e che hanno comportato l’intervento dell’ONU. Ma autorizzato anche quello, non certo disinteressato, di Paesi come Russia e Francia. La Repubblica Centrafricana – ci dicono i mezzi d’informazione – è uno dei paesi più poveri di tutta l’Africa, nonostante sia ricca di diamanti e di uranio. Metà della popolazione del Paese, secondo i rapporti ufficiali, è dipendente dagli aiuti umanitari e un quinto è sfollata, essendo stata costretta a lasciare la propria casa per sfuggire alle violenze. L’analfabetismo è una piaga insanabile.

Né va meglio nella Repubblica della Costa d’Avorio. I risultati plebiscitari delle ultime elezioni democratiche hanno visto la fuga di migliaia di persone nei Paesi vicini per sottrarsi a repressioni brutali, attacchi terroristici e uccisioni indiscriminate. E i flussi migratori verso il Mediterraneo sono in costante aumento, con le conseguenze che conosciamo.

Contribuire allo sviluppo di questi Paesi, in un mondo allargato in cui nessuno esiste più da solo, è contribuire al bene comunenell’interesse di tutti. Ma il sostegno che l’Europa democratica e liberale dovrebbe impegnarsi a prestare non è di favorire la democrazia interna insistendo su un criterio – quello dei pesi e delle misure – già ampiamente usato. Bensì insistere sulla promozione culturale di tutta la popolazione, affinché dei valori della propria tradizione storico-culturale sappia – valorizzandone i molti pregi e colmandone le eventuali insufficienze – fare la chiave per comprendere i problemi del presente e, affrontandoli da protagonisti, riuscire a raggiungere la migliore qualità di vita possibile secondo le proprie capacità, inclinazioni e aspettative.

L’istruzione rappresenta il nodo fondamentale di questo percorso. È certamente il solo fattore che possa consentire all’Africa di risolvere le difficoltà attualmente vissute e, usando le immense risorse umane e naturali che possiede, diventare un continente prospero e progredito, avendone tutte le opportunità.

Appuntare l’attenzione su questo aspetto, e collaborare per rafforzarlo, significa consentire al Continente africano di trovare in se stesso, autonomamente, le risorse con cui correggere le deviazioni dannose che la democrazia – affidata solo alla regoladella forza maggiore –   non è, altrimenti, in grado di scongiurare.

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