In Uganda, oltre 20 mila minori sono stati assoldati dall’Esercito di Resistenza del Signore (Lord Resistent Army/LRA), il cui leader sanguinario è Joseph Kony, che semina il terrore perseguendo l’obiettivo di rovesciare il governo “ateo” di Kampala e creare in Uganda un “Regno del Signore” ispirato ai Dieci Comandamenti della Bibbia. I ribelli rapiscono i bambini, in prevalenza tra gli 8 e i 16 anni. Per proteggerli, le famiglie mandano i figli a trascorrere la notte nelle città, dove trovano rifugio nei cortili degli ospedali, lungo le strade, nei centri di accoglienza. Vengono soprannominati i “night commuters”, pendolari della notte, che al mattino fanno ritorno nelle loro case. Ma questa milizia compie numerosi altri crimini ai danni dei civili, in particolare giovani donne e bambine.
Il 28 febbraio 2024 la Trial Chamber IX della Corte Penale Internazionale (CPI) ha disposto un risarcimento senza precedenti in favore delle vittime di Dominic Ongwen, condannato a 25 anni di reclusione per crimini contro l’umanità e crimini di guerra. La cifra record è di 52.429.000 euro a beneficio di un altrettanto elevato numero di vittime, ben 40.772. In quel processo, conclusosi il 4 febbraio 2021, furono contestati all’imputato 61 capi d’accusa, tra cui la coscrizione di minori di 15 anni, omicidi, atti di tortura, riduzione in schiavitù, schiavitù sessuale, stupro, matrimonio forzato e gravidanza forzata ai danni di 7 donne, sequestrate e costrette a vivere con Ongwen, comandante della brigata Sinia del LRA. Ma crimini analoghi sono stati riservati anche a numerose altre bambine e donne appartenenti alla stessa brigata Sinia, che non sono state risparmiate dalla violenza del gruppo militare.
Nel corso del processo la difesa ha tentato senza successo di far riconoscere all’imputato l’infermità mentale che sarebbe derivata dalla sua vicenda personale. Infatti, Ongwen è un ex bambino soldato, rapito a 9 anni dal LRA, nel 1987. Egli è stato costretto a vivere gli stessi orrori che, una volta adulto, ha inferto ad altri bambini e bambine posti sotto il suo comando. Infatti, i crimini sono stati commessi da Ongwen nella sua qualità di comandante della milizia ribelle che si contrappone al governo ugandese, seminando il terrore tra i civili, sopratutto gli abitanti del Nord dell’Uganda, in quanto accusati dai miliziani di appoggiare il governo in carica.
In questo processo la CPI ha per la prima volta pronunciato una condanna per matrimonio forzato e gravidanza forzata, due pratiche imposte alle giovani fatte prigioniere dalla milizia. In genere, le donne catturate durante gli attacchi nei villaggi venivano destinate come trofei ai comandanti, tra cui Joseph Kony e Dominic Ongwen.
Le sette donne catturate da Ongwen erano costrette a vivere con lui ed erano poste sotto stretta sorveglianza per evitarne la fuga. Venivano denominate “mogli” e, una volta in cattività, erano ridotte a schiave sessuali, erano obbligate al lavoro forzato di domestiche personali dell’imputato, nonché costrette a gravidanze forzate. A quelle più mansuete venivano imposti altri compiti particolarmente crudeli, come percuotere i prigionieri fino alla morte. Ogni disobbedienza agli ordini o tentativo di fuga veniva ripagato con punizioni corporali o con la morte. Gli accertamenti peritali compiuti nel corso del processo mediante l’esame del dna hanno confermato che i bambini nati dagli stupri di quelle sette donne erano figli di Ongwen.
Quella della gravidanza forzata è una fattispecie criminosa rientrante nell’alveo della violenza riproduttiva, di cui fanno parte altre condotte come la sterilizzazione forzata o l’aborto forzato. Attraverso la criminalizzazione di queste condotte si intende punire la violenza esercitata contro l’autonomia riproduttiva, in cui la vittima viene posta nella condizione di non poter liberamente scegliere se continuare l’iter riproduttivo. Questi crimini rappresentano pertanto la negazione dell’autonomia riproduttiva della vittima ed oggi sono puniti anche dal diritto penale internazionale.
In questo caso, le vittime di Ongwen venivano ridotte a vivere in cattività per permettere all’imputato di renderle schiave sessuali e privarle della possibilità di compiere una scelta libera legata alla loro maternità. L’illecito confinamento delle giovani vittime di Ongwen era dunque finalizzato alla perpetrazione del crimine, ovvero metterle incinte e costringerle a procreare, oltre che alla commissione di altri crimini contro di loro. L’imputato sapeva dello stato di gravidanza delle sue vittime e sapeva che quella condizione era il risultato della violenza sessuale da lui consumata.
Nel processo contro Ongwen l’accusa è riuscita anche a dimostrare che la violenza riproduttiva può essere usata come strategia militare nell’ambito di un conflitto. In questo caso, il LRA rapiva, violentava e riduceva a schiave sessuali donne e bambine, nella prospettiva che esse avrebbero in futuro procreato nuovi miliziani. In tal modo il gruppo armato si sarebbe rigenerato e i miliziani più giovani avrebbero rimpiazzato le perdite dei più anziani. Il LRA implementava così una politica di riduzione in schiavitù di giovanissime donne ai fini sessuali e riproduttivi. Pertanto, anche la violenza riproduttiva può diventare un’arma di guerra.
Il processo contro Ongwen ha avuto una forza dirompente su questi temi così specifici come la gravidanza forzata, facendo tesoro di quella che era stata l’esperienza di diversi processi per crimini analoghi celebratisi in precedenza davanti ad altre giurisdizioni penali internazionali.
Durante il genocidio ruandese, il conflitto nei Balcani e la guerra civile in Sierra Leone furono perpetrati molti crimini legati alla sfera sessuale e al genere, ma in quel caso la vittima era identificata con il gruppo etnico di appartenenza, per cui attraverso
la vittima si intendeva colpire il gruppo. Infatti, con la gravidanza forzata si intende generalmente incidere sulla composizione etnica del gruppo oppure si intende perpetrare altri crimini previsti dal diritto internazionale, di cui la condizione della donna sottomessa sessualmente agevola la commissione.
Il collegamento con la dimensione etnica manca nelle vittime di Ongwen, per cui non si è trattato neanche di violenza sessuale genocidaria, ma di violenza individuale esercitata contro giovani donne in età riproduttiva in quanto donne. Pertanto, è un crimine la cui matrice è squisitamente di genere. Ongwen confinava sotto stretta sorveglianza e metteva incinta le sue vittime per compiere altri crimini di natura sessuale, quali atti di tortura, stupri, schiavitù sessuale e matrimonio forzato, quest’ultimo per la prima volta classificato autonomamente come atto inumano e non come rientrante nella fattispecie di schiavitù sessuale, come era stato considerato dalla giurisprudenza precedente.
Diverse erano anche la schiavitù sessuale e la gravidanza forzata nei confronti delle donne yazidi, perseguitate dall’ISIS ai fini della loro conversione e della loro sottomissione in quanto donne. Qui la violenza contro le donne aveva una dimensione etnica e religiosa, da un lato, perché colpiva il gruppo yazidi nel suo insieme, ma anche di genere, perché colpiva le donne in quanto considerate inferiori agli uomini nell’ideologia del sedicente Stato Islamico.
Con questa sentenza, la CPI ha pionieristicamente creato un precedente giurisprudenziale volto a configurare il crimine di gravidanza forzata sia come crimine contro l’umanità che come crimine di guerra.
Da ultimo, il riconoscimento di un risarcimento alle vittime in maniera così incisiva e senza precedenti in termini economici costituisce un ulteriore balzo in avanti della giustizia penale internazionale, che per troppo tempo ha trascurato le vittime, preoccupandosi principalmente di amministrare una giustizia retributiva e non anche riparativa.
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Credits foto .accord.org.za/publication/the-never-ending-pursuit-of-the-lord-s-resistance-army