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Sudan, un anno fa la firma dell’accordo costituzionale, primo passo verso democrazia

KHARTOUM – Un anno fa veniva firmata la dichiarazione costituzionale che dava il via  alla formazione  del governo di unità nazionale in Sudan, dopo mesi di rivolte e centinaia di vittime.
Oggi quel 17 agosto del 2019, giorno in cui nacque l’alleanza tra la Giunta dei generali e le Forze della libertà e del cambiamento, non è stato celebrato come previsto a causa delle restrizioni per il Covid 19 ma i manifestanti non hanno rinunciato alla piazza e hanno deciso di ritrovarsi in strada per supportare il premier Abdalla Hamdok.
Tanto è stato fatto, ma guardando alle periferie del Paese, ai disastri causati dalle alluvioni, centinaia di morti, 200mila sfollati e decine di migliaia di case distrutte, agli scontri tribali nel Sudan Orientale e agli attacchi delle milizie in Darfur che hanno costretto i residenti alla fuga, il percorso verso una democrazia compiuta appare alquanto accidentato.
Eppure una speranza c’è, la percepisci tra le capanne e le case di sabbia e fango degli ‘ultimi’ che non si arrendono e vogliono credere in un futuro migliore. A cominciare dalle riforme volute dall’economista e primo ministro del governo ‘costruito’ sulle ceneri del trentennale regime di Omar Hassan al-Bashir. Il primo passo è stato quello di abrogare gran parte dei reati previsti dalla legge islamica.

Una svolta storica resa possibile da un processo di cambiamento avviato dopo la caduta del presidente dittatore, salito al potere con un colpo di Stato nel 1989 e deposto egli stesso da un golpe l’11 aprile del 2019. Un percorso che procede nonostante i tentativi di farlo deragliare, come ha dimostrato l’attentato al premier sventato lo scorso marzo, e le tensioni tra i fronti contrapposti. Da un lato i leader delle rivolte che avevano portato alle dimissioni forzate di Bashir, scesi in piazza a fine giugno per chiedere tempi più rapidi per le riforme e maggiore presenza dei civili nell’esecutivo di transizione, e dall’altro gli islamisti che si contrappongono alla decisione di abbandonare la sharia, promuovendo proteste per chiedere un ritorno alla ‘Repubblica islamica’.
Dall’abolizione della condanna a morte per il reato di “ripudio del proprio credo” alla revoca del divieto per i non musulmani di bere alcolici, fino alla cancellazione della pena capitale per “sodomia”, costata la vita a centinaia di omosessuali sudanesi, le nuove norme annunciate dal ministro della Giustizia Nasredeen Abdulbari «garantiranno la libertà religiosa e l’uguaglianza dei cittadini, elemento doveroso per un Paese che ormai basa la sua azione sullo stato di diritto», come lui stesso ha sottolineato annunciando l’avvio dell’iter riformatore.

Con l’abrogazione degli articoli del codice penale che incorporavano i precetti della sharia saranno soppresse leggi che negli ultimi decenni hanno causato discriminazioni e vere e proprie persecuzioni in Sudan. Soprattutto nei confronti dei cristiani. Tra i casi che hanno destato maggiore scalpore, suscitando l’interesse e la mobilitazione internazionale, la condanna a morte per apostasia nel 2014 di Meriam Ishag Ibrahim, giovane sudanese incinta all’ottavo mese. Anche Avvenire, con il supporto alla campagna “Save Meriam” promossa da alcune organizzazioni per i diritti umani tra cui Amnesty International e Italians for Darfur, ha contribuito a salvare la ventisettenne cristiana dall’impiccagione. La colpa di Meriam? Aver abbracciato la fede della madre e non quella del padre musulmano, che aveva abbandonato il tetto coniugale quando lei aveva sei anni, e aver sposato un uomo cristiano.

Il suo rifiuto a rinnegare il credo che fin da bambina aveva praticato per evitare la condanna, come le era stato proposto dal giudice che aveva poi emesso la sentenza, le ha fatto guadagnare l’appellativo di “esempio” per la cristianità, pronunciato da Papa Francesco che ha voluto incontrarla quando, dopo la liberazione, è arrivata a Roma grazie a un volo di Stato del governo italiano. «Sono felice che il mio Paese abbia finalmente compiuto questo passo. Ora sogno di poter tornare, un giorno, in Sudan e rivedere amici e familiari » è stato il primo commento di Meriam, che oggi vive nel New Hampshire, negli Stati Uniti – dove ha ottenuto la cittadinanza americana – insieme al marito Daniel Wani e ai figli Martin e Maya, nata in carcere durante la detenzione in Sudan.

Mai più un cristiano sudanese dovrebbe rischiare la vita per la propria fede: tra tutte le riforme annunciate quella relativa alla libertà di culto pone fine a una vera e propria persecuzione. Le sopraffazioni in Sudan ai danni della minoranza religiosa nel Paese africano erano una costante durante il regime di Bashir e nel 2018 risultavano sensibilmente in aumento. Il governo aveva infatti promulgato leggi di pianificazione edilizia finalizzate alla distruzione delle chiese e degli edifici religiosi nel tentativo di estirpare il Cristianesimo, soprattutto dopo la separazione del Sudan meridionale a maggioranza cristiana.

Nell’ultimo anno, prima della caduta dell’ex generale, era stata disposta la chiusura di oltre 20 parrocchie. Nello stesso periodo, secondo l’organizzazione internazionale ‘Open doors’ che opera per la difesa dei cristiani perseguitati in 60 Paesi, almeno tre sacerdoti erano stati uccisi e centinaia di fedeli arrestati per disturbo della ‘pace pubblica’. Veri e propri atti di intimidazione al fine di scoraggiare la pratica del culto o l’insegnamento con metodi cristiani. Finora anche interagire con i musulmani sudanesi poteva essere fonte di guai. Era necessaria massima cautela, menzio- nare la propria fede poteva essere interpretato come un atto che incoraggiava l’apostasia nei confronti dell’islam. I l Sudan, fino al 2018, era al quinto posto nella classifica di ‘Open doors’ delle nazioni con il maggior numero di azioni ostili e persecuzioni. Sotto il dominio autoritario del presidente al-Bashir e del suo partito, non esisteva uno stato di diritto nel Paese. Il suo governo ha anche tentato di controllare la leadership cristiana attraverso l’istituzione di un comitato di nomina governativa. Per anni sono stati arrestati e intimiditi regolarmente i leader delle comunità religiose. Alcuni religiosi sono stati imprigionati con l’accusa di spionaggio, molte chiese distrutte per poter espropriare i terreni delle comunità sotto attacco.

Da oggi tutto questo non sarà più possibile. Almeno dal punto di vista legale. La legge, però, non può proteggere dagli estremisti che non hanno accolto con favore la svolta di Hamdok. Nelle aree in conflitto nel Paese, i cristiani vengono attaccati indiscriminatamente. Sono le principali vittime, in particolare nel Sud Kordofan, delle milizie filo arabe che si contrappongono ai gruppi ribelli che non hanno ancora deposto le armi. Portare avanti l’azione riformatrice in Sudan non è compito agevole. I malumori non sono mancati neanche per le altre significative novità che stanno cambiando il volto della nazione africana, come il divieto di praticare le mutilazioni genitali femminili con l’introduzione di pene fino a tre anni di reclusione per chi continuasse a perpetuare la tribale usanza e l’abolizione della legge che imponeva alle donne di coprirsi in pubblico e impediva loro di viaggiare con i propri figli in assenza del marito.

Cancellata anche la norma che vietava il consumo di alcolici ai non musulmani (il 3% circa della popolazione) che però rimane in vigore per i fedeli musulmani. Cambiamenti storici che nell’anniversario della firma della dichiarazione costituzionale danno forza al mandato di Hamdok che deve e può consolidare la democrazia in Sudan.

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