L’11 aprile del 2019 con un golpe militare veniva deposto il presidente dittatore del Sudan, Omar Hassan al-Bashir.
Già da alcuni giorni le proteste avevano spinto l’esercito a prendere posizione a favore della società difendendo i manifestanti che il 6 aprile 2019 erano arrivati davanti a palazzo presidenziale.
Quel giorno i militari decisero di porre fine al regime trentennale di Bashir dopo quattro mesi di proteste di massa e violazioni dei diritti perpetrate dal suo apparato di sicurezza.
Fondato nel 1955 dalla Gran Bretagna, che ha difeso il Sudan sotto il dominio britannico fino all’indipendenza del paese un anno dopo, l’esercito sudanese ha mantenuto per tre lunghi decenni un ruolo neutrale, fino a tre anni fa quando i vertici militari hanno compreso che la stabilità del governo sudanese era fragile.
Su questi presupposti il colpo di stato militare è stato inevitabile.
Alla caduta di Bashir è seguita una fase di transizione, sulla base a un accordo di condivisione del potere firmato dal generale Abdel Fattah al Burhan e i rappresentanti dei manifestanti.
I militari avrebbero dovuto governare il Sudan per 21 dei 39 mesi prima delle elezioni previste inizialmente nel 2022 poi posticipare al 2023.
Ma lo scorso 25 ottobre con un nuovo golpe i generali alla guida del Consiglio sovrano, organò che affiancava il governo del primo ministro Abdalla Hamdok, hanno posto fine al processo di democratizzazione faticosamente messo in atto con la fine della dittatura.
Ma la società civile non ha subito inerme questo nuovo attacco alla libertà del popolo sudanese e da sette mesi porta avanti proteste per chiedere il ripristino di un governo civile. Manifestazioni pacifiche represse con violenza inaudita. Già un centinaio le vittime e migliaia i feriti.
E l’onda lunga delle nuove rivolte non è destinata ad arrestarsi. Come non si fermano le repressioni.
Anche oggi i militari hanno sparato sulla folla, uccidendo un manifestante.