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Sudan, presentato in Senato il Rapporto 2020 di Italians for Darfur

Come ogni anno è stato presentato, con qualche mese di ritardo causa Covid 19, il rapporto sulla crisi in Darfur, regione occidentale del Sudan, e sulla situazione generale del Paese.
L’audizione si inserisce nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani, vigenti in Italia e nella realtà internazionale. A illustrare il rapporto, in videoconferenza, Antonella Napoli, presidente onoraria dell’associazione Italians for Darfur, nonché direttrice della nostra rivista.
Mentre in tutto il Sudan riprendono le rivolte contro il governo di transizione guidato dal primo ministro Abdalla Hamdok – ha sottolineato Antonella Napoli nel suo intervento – nonostante l’accordo di pace sottoscritto il 3 ottobre a Juba a distanza di 17 anni dall’inizio del conflitto in Darfur, la crisi nella regione registra nuovi picchi di violenze. Da giugno in Sudan, e in particolare nel Darfur, si sono susseguiti scontri violenti. L’OCHA, il Coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite, ha registrato decine di episodi nel Darfur occidentale che hanno causato centinaia di morti e feriti, villaggi e case bruciati e lo sfollamento di migliaia di persone compromettendo la stagione agricola già devastata dalla stagione delle piogge, causando la perdita di mezzi di sussistenza e facendo crescere i bisogni umanitari. È per questo che la decisione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di cambiare il mandato della missione di peacekeeping in missione politica appare a due poco improvvida” ha concluso la giornalista.

Di seguito il rapporto integrale

RAPPORTO SUDAN 2020
Italians for Darfur

Introduzione

Questo rapporto pone in evidenza come un forte mandato di protezione dei civili di una missione di pace, quale quella dispiegata in Sudan, possa avere conseguenze indesiderate e dannose per i principali attori locali coinvolti e risultare inefficace nell’attuazione delle risoluzioni che ne hanno disposto il dispiegament
L’analisi della missione ibrida Nazioni Unite-Unione africana di mantenimento della pace in Darfur, (UNAMID) si concentra in particolare sulle testimonianze raccolte sul posto e i dati relativi alle violazioni dei diritti umani.
Essa rileva come il sistema dell’ONU non abbia una politica chiara o meccanismi automaticamente incorporati per prevenire potenziali danni a coloro su cui basano gli interventi locali.
Attraverso le interviste a ex operatori impegnati in prima linea sui diritti umani in Darfur, nell’ambito dell’UNAMID, sono state svelate le dinamiche di questioni più generali come la difficoltà di garantire protezione dei civili, pilastro centrale delle missioni di pace delle Nazioni Unite, in uno scenario in cui il governo dello Stato ospitante è ostile.
La protezione dello staff locale per Unamid resta un elemento prioritario nell’approccio della missione, compreso l’impegno a ritirare i componenti dello staff dalle rispettive postazioni se la loro sicurezza è minacciata o compromessa.


Il contesto e l’analisi della missione Unamid

Nella letteratura più ampia sulle missioni di pace delle Nazioni Unite, spesso sono state riportate affermazioni contraddittorie circa la loro efficacia in relazione alla protezione civile e alla soluzione di conflitti. Non sono mancati i casi in cui siano stati rilevati atti decisamente poco pacifici e legali, come lo sfruttamento sessuale e gli abusi nei confronti della popolazione locale e l’appropriazione indebita di risorse economiche.
Fallimenti di alto profilo delle missioni di pace dell’ONU, forse i più significativi in Bosnia, Ruanda e Sri Lanka, hanno portato alla modifica del ruolo e dei piani di intervento per la difesa dei diritti umani.
Il passaggio normativo sulla rimodulazione delle operazioni di pace ha permesso di sanare le incongruenze delle operazioni di pace ma anche di lasciare scoperti terreni che vivono situazioni di grave insicurezza.​
Questo rapporto spiega perché, sfidando la sovranità del Sudan, la missione Unamid abbia fallito in termini di protezione nei confronti dei civili locali impegnati nell’attuazione del mandato dell’operazione.
Il personale Unamid è stato utilizzato in particolare nel monitoraggio dei diritti umani, approfondendo con interviste sul posto le conoscenze locali delle violazioni perpetrate a danno della popolazione.
Un intervento sul terreno di grande importanza, anche se alcuni osservatori internazionali ritengono l’accuratezza e la rilevanza dell’esito controverse.
Non è stato facile contestualizzare i dati e le informazioni in uno scenario dove il governo del Paese che ospita la missione è stato spesso ostile. L’azione di peacekeeping ha richiesto una differente forma di sviluppo per non perdere di vista il presupposto di una protezione civile e umana dei diritti.
Un mandato forte per le operazioni di pace delle Nazioni Unite richiede come prerequisito un approfondimento, attraverso la comprensione basata sull’evidenza delle reali dinamiche del conflitto, sulle potenziali carenze dei governi
I sistemi di informazione e di analisi delle Nazioni Unite attraverso il personale civile locale sul terreno, che garantisce l’interfaccia tra le popolazioni civili locali, sono fondamentali.
In questo modo è stato possibile predisporre i protocolli per la protezione nelle aree a rischio, in particolare nelle zone in cui la missione di pace non gode del pieno sostegno del governo che la ospita ed è visto come ostile.

La protezione del personale

Metodologicamente, la parte empirica principale dell’analisi si basa su interviste condotte nel 2016 con quattro ex dipendenti dell’UNAMID con diverse funzioni, ma tutte direttamente o indirettamente legate alla documentazione delle violazioni dei diritti umani in Darfur o all’assistenza a tale documentazione.
I quattro operatori, tre uomini e una donna, hanno lavorato per l’UNAMID dal 2010-2013 (un intervistato) e dal 2007-2014 (tre intervistati). Sono stati selezionati attraverso metodi di campionamento in relazione a un progetto di ricerca triennale sui dati di peacekeeping in Darfur. ​
L’analisi approfondita della vita dei quattro intervistati offre una finestra unica sui difficili compromessi che hanno dovuto affrontare nel corso della missione.
Il report si avvale anche dei dati raccolti per il progetto dal ricercatore post-dottorato Zuhair Bashar, ovvero 53 interviste condotte tra i rifugiati del Darfur (41 uomini e 12 donne) in due campi profughi nel Ciad orientale, Goz Amir e Goz Beida.
Il ricordo del loro impegno con l’UNAMID, in particolare in relazione alla denuncia di violazioni dei diritti umani e di abusi di civili, aggiunge un’ulteriore dimensione alla dinamica che il rapporto fa emergere.
Infine, sono ripotati i dati delle interviste con il personale di peacekeeping di altre missioni che si occupano attivamente di diritti umani nelle missioni di pace dell’ONU ad Addis Abeba ed Etiopia come elemento di raffronto con l’operazione in oggetto.

Il conflitto nel Darfur

Molto è stato scritto sulla violenza intermittente e sul conflitto nella regione sudanese del Darfur dalla metà degli anni ’80 in poi, innescato da una combinazione delle dinamiche locali, ma anche delle caratteristiche della governance nazionale del Sudan e la posizione strutturale del Darfur all’interno dello Stato.
Le condizioni sul terreno, nonostante i cambiamenti politici dopo la caduta del regime, non sono cambiate.
UNAMID, come missione ibrida composta da Unione Africana e Nazioni Unite, è entrata in scena in Darfur nel dicembre 2007, prendendo il posto di una operazione dell’UA che inizialmente era stata creata come missione di osservazione per monitorare l’accordo per il cessate il fuoco del 2004 che ha preceduto la pace nel Darfur firmato ad Abuja, Nigeria, nel maggio 2006.
Il periodo successivo all’accordo ha visto un ridimensionamento della violenza su larga scala nella regione mentre la situazione della sicurezza dei civili è rimasta precaria.
La sfuggente soluzione politica al conflitto ha reso instabile il contesto regionale. Lo scontro tra i gruppi di ribelli che non avevano sottoscritto l’accordo di Abuja e il governo del Sudan è proseguito rivelandosi sempre più una violenta lotta per il potere e le risorse.
Le forze governative hanno utilizzato principalmente le milizie piuttosto che i militari regolari, i cosiddetti Janjaweed, per incitare alla violenza.
Il periodo post Abuja ha visto la frammentazione dei gruppi di ribelli, sempre più divisi, e la nascita di nuove fazioni armate che continuano ancora oggi a combattere per la supremazia sul territorio.
Divenuta pienamente operativa il 31 dicembre 2007, l’Unamid ha avuto come fulcro del proprio mandato la protezione dei civili, compresa la grande popolazione degli sfollati interni nei vari campi profughi del Darfur.
L’Uunamid ha avuto fin dall’inizio un chiaro mandato di registrare le violazioni compiute sul terreno e agire su incidenti che minacciavano la sicurezza delle popolazioni civili, condizione che di fatto riconosceva indirettamente che il governo sudanese non riusciva a garantire protezione, non da ultimo perché
una grande percentuale di quei civili vivevano ormai nei campi per sfollati interni la cui sicurezza
in teoria era garantita dalla polizia e dalla sicurezza del governo sudanese.
All’interno di questo ambiente impegnativo ma basato sul mandato di proteggere civili, l’Unamid ha sistematicamente raccolto micro-dati a livello di sicurezza e abusi dei diritti dei civili utilizzando una serie di tecniche, tra cui incontri pubblici, focus di gruppo, interviste a singoli individui e analisi dei media, in linea con le più ampie politiche dell’ONU. Questi compiti sono stati svolti principalmente attraverso il personale dell’UNAMID’s Civil Affairs and Human Rights.
L’importanza del personale locale per la missione è riscontrabile anche dal numero relativamente elevato delle risorse impegnate, in quanto in media costituiscono il 50 per cento o più del personale civile.
Attualmente, a partire da gennaio 2020, la missione dispiega 492 civili internazionali e 945 membri di
personale civile nazionale, in calo rispetto ai 1185 del personale internazionale e ai 2970 di quello locale nel 2012.
Questa riduzione del personale è conseguenza del cambio di mandato della missione approvato dal Consiglio di sicurezza nel 2018, determinando il passaggio da azione di peacekeeping a peacebuilding, con la prevista fine delle operazioni il 31 dicembre 2020. ​

Principali sviluppi recenti

Il 3 giugno di quest’anno il Consiglio di Sicurezza ha adottato la risoluzione 2524, che istituisce l’UNITAMS per un periodo iniziale di 12 mesi e stabilisce quattro obiettivi strategici per la missione: assistere la transizione politica del Sudan; sostenere i processi di pace e l’attuazione dei futuri accordi di pace; assistere il consolidamento della pace, la protezione civile e lo stato di diritto nel Darfur, nel Sud Kordofan e nello Stato del Nilo Blu, sostenere l’assistenza economica e allo sviluppo e coordinare l’assistenza umanitaria.
La risoluzione chiede inoltre che il Segretario generale fornisca al Consiglio “una struttura e un dispiegamento geografico suggeriti entro 60 giorni dall’adozione della risoluzione”. Tuttavia, il 23 luglio, il Segretario generale ha chiesto una proroga di 60 giorni a causa delle “notevoli sfide legate al COVID-19”.
Il rapporto è previsto per fine ottobre.
La risoluzione 2525, anch’essa adottata il 3 giugno, ha prorogato il mandato dell’UNAMID fino al 31 dicembre, mantenendo i massimali per le truppe e la polizia. ​
Il Segretario generale dell’ONU e il presidente della Commissione dell’UA forniranno al Consiglio di sicurezza una relazione entro il 30 novembre 2020, che valuti, tra l’altro, l’impatto del processo di pace sulla situazione della sicurezza nel Darfur, la capacità del governo sudanese di proteggere i civili in linea con la strategia delineata nella lettera del governo sudanese indirizzata al presidente del Consiglio di sicurezza del 21 maggio 2020 (S/2020/429) e le raccomandazioni sulla linea d’azione appropriata da seguire per l’elaborazione della nuova missione.
Da giugno, la situazione in Sudan, e in particolare nel Darfur, è stata impegnativa, con numerose segnalazioni di scontri violenti in diverse parti del Paese. ​
Il 25 luglio, 61 persone sono state uccise e altre 88 ferite quando circa 500 uomini armati hanno attaccato Masteri, un villaggio nel Darfur occidentale. ​
Il 13 luglio, uomini armati non identificati hanno attaccato il campo di Fata Bornu per sfollati interni a Kutum, nel Darfur settentrionale, uccidendo nove persone e ferendone venti.​
Secondo l’OCHA, dal 19 al 26 luglio sono stati segnalati almeno sette eventi violenti nel Darfur occidentale, che hanno lasciato “decine di morti o feriti, diversi villaggi e case bruciate”, e che hanno portato “a un aumento degli sfollati, compromettendo la stagione agricola, causando la perdita di vite umane e di mezzi di sussistenza e facendo crescere i bisogni umanitari”. ​
All’inizio di agosto, la violenza tra i membri delle tribù Bani Aarem e Nuba a Port Sudan ha portato alla morte di 25 persone.​
Il 6 agosto, l’OCHA (Coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite) ha certificato che l’escalation di violenza e le inondazioni hanno causato un drastico rallentamento dell’azione di contenimento in Sudan della pandemia di COVID-19 (al 14 agosto il Sudan ha avuto 12.115 casi di coronavirus e 792 morti, secondo l’OMS).
In risposta alla crescente violenza in Darfur, l’11 agosto i membri del Consiglio di sicurezza hanno discusso sulla situazione su richiesta di Regno Unito e Germania che avevano già rivolto ai membri del Consiglio l’invito a riunirsi in consultazioni a porte chiuse per valutare come l’UNAMID potesse garantire sostegno del governo di transizione. Tuttavia, la richiesta non ha ottenuto il sostegno necessario tra i membri del Consiglio per essere inclusa nel programma di lavoro del Consiglio di agosto. ​

La situazione umanitaria e Le devastazioni della stagione delle piogge

Sotto il profilo umanitario, da metà agosto, le forti piogge e le inondazioni hanno aggravato la situazione in tutto il Sudan causando frane, gravi danni alle infrastrutture e alle abitazioni, perdita di raccolti e riduzione della produzione alimentare nel Darfur meridionale, nel Kordofan occidentale e a El Gezira.​
A livello globale, il Sudan è uno tra i paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici, con una forte esposizione alle calamità naturali – desertificazione, siccità e cicliche inondazioni – che contribuiscono a indebolire la situazione socio-economica delle comunità.
Malgrado la costante ricorrenza di questi fenomeni, ad oggi il paese non si è ancora dotato di un meccanismo di coordinamento a livello nazionale basato su un piano di preparazione, prevenzione e mitigazione dei rischi dei disastri ambientali.
Nelle ultime settimane, l’innalzamento senza precedenti del livello del Nilo ha trovato nuovamente impreparato il Sudan. I danni causati dalle inondazioni hanno portato il governo a dichiarare lo stato di emergenza per tre mesi e a definire il paese “area di disastro naturale”. Secondo le previsioni metereologiche ad oggi disponibili, si stima un ulteriore aggravamento del disastro idrogeologico[1] con un drammatico peggioramento della situazione umanitaria, nel mezzo di una devastante crisi economica che mette a rischio la capacità di approvvigionamento alimentare e favorisce lo scoppio violento di tensioni sociali e scontri interetnici altrimenti latenti. La crisi umanitaria in corso sta mettendo peraltro in secondo piano le gravi criticità del sistema sanitario nazionale, già messo a dura prova dalla pandemia da Covid-19, che tuttora persiste con un numero di contagi largamente sottostimati, mentre si attendono riscontri sugli endemici focolai di colera, malaria e dengue, che come ogni anno accompagnano la stagione delle piogge.
Secondo la Commissione per gli Aiuti Umanitari (HAC) del governo, al 16 settembre, a causa delle esondazioni, almeno 155 persone hanno perso la vita e il numero di quelle gravemente colpite ha superato le 875.000 nei 18 stati del Sudan, primi fra tutti lo stato di Khartoum, il Nord Darfur e il Sennar. Tra le persone maggiormente colpite ci sono circa 125.000 rifugiati e sfollati interni.Interi villaggi sono stati sommersi e oltre 146.000 case sono state distrutte o hanno subito gravi danni. Interi ettari di colture sono stati devastati, compromettendo il raccolto e la sicurezza alimentare, già precaria, di un numero elevato di nuclei familiari. Molti edifici pubblici, tra cui scuole e centri sanitari, sono stati pesantemente danneggiati e oltre 11.000 capi di bestiame sono stati portati via dalla spinta delle inondazioni. Quest’ultimo aspetto ha comportato gravi ripercussioni per le categorie più vulnerabili e a rischio per quanto riguarda la possibilità di reperimento del cibo, sia per le vie di comunicazione interdette a causa degli allagamenti delle strade, sia per l’ulteriore impennata dei prezzi registrata a seguito dell’emergenza in corso, riducendo considerevolmente le già minime opportunità di reddito.
A seguito delle alluvioni migliaia gli sfollati hanno trovato rifugio nelle scuole, indirizzando nuove sfide al governo appena prima dell’inizio del nuovo anno scolastico, posticipato a fine novembre.
Dai needs assessments effettuati dalle organizzazioni internazionali, in coordinamento con le agenzie delle Nazioni Unite, emerge un urgente bisogno di assistenza umanitaria, in via prioritaria su tre settori operativi: salute (farmaci, cliniche mobili per le aree difficili da raggiungere); acqua e servizi igienico-sanitari – WASH (servizi igienici, purificazione dell’acqua); beni non alimentari (materassi, taniche, lenzuola, zanzariere, sacchi di sabbia). Sulla base dell’analisi dei bisogni emersi in conseguenza delle esondazioni e dell’appello umanitario lanciato dal governo sudanese, la comunità internazionale si è mobilitata a supporto della Flood Task Force attivata da HAC per coordinare gli interventi di risposta all’emergenza. Al 24 settembre oltre 400.000 persone hanno ricevuto assistenza: cibo, acqua potabile, kit di emergenza, teloni, materassi) e accesso alle cure sanitarie.
Quest’ennesima crisi umanitaria ha messo in evidenza le criticità strutturali che da anni accompagnano le risposte emergenziali alle crisi, e che pongono l’urgenza di un cambio di paradigma culturale. Impegnarsi in una risposta di primissima emergenza consente certo di ottenere una più forte risonanza mediatica, ma non garantisce le basi solide di un’azione più strutturata che possa evolversi in un processo di sviluppo a più lungo termine. Le operazioni non possono limitarsi al “post emergenza”: occorre promuovere una preventiva concertazione per una pianificazione congiunta degli interventi tra gli stakeholder a livello nazionale e internazionale, in una logica di Disaster Risk Reduction (DDR), al fine di rendere la risposta efficace e tempestiva.
Nella consapevolezza che il Sudan sia un paese dagli eventi emergenziali ciclici, sin dal mese di marzo, l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo – AICS ha avviato una collaborazione con la Fondazione CIMA, centro di competenza del Dipartimento della Protezione Civile Italiana, che ha definito un piano di prevenzione dei rischi nell’area di Mayo, distretto tra i più degradati della periferia di Khartoum, che ciclicamente subisce ingenti danni a causa delle forti piogge e conseguenti inondazioni. AICS Khartoum ha indetto un bando tramite il quale ha finanziato alcuni progetti di ONG italiane operanti nel paese in un’ottica di azione anticipatoria, basandosi sulle indicazioni presenti nello studio di fattibilità della Fondazione CIMA con l’obiettivo di ridurre i fattori di rischio e di vulnerabilità, nonché di accrescere la resilienza della popolazione agli effetti dei cambiamenti climatici.
Per superare un approccio meramente emergenziale è necessario che un disastro ambientale sia preceduto da processi decisionali chiari e da azioni sistematiche volte a sensibilizzare e rafforzare le istituzioni e le comunità nelle loro capacità di prevenzione e mitigazione dei rischi. Occorre richiedere un maggiore impegno politico e disporre di fondi sufficienti a cui ricorrere sia per l’applicazione di misure preventive sia nell’evenienza di un evento calamitoso. (FONTE ISPI)

Sviluppi relativi ai diritti umani

Nella 44a sessione del Consiglio per i diritti umani (HRC) sono state svolte le relazioni del rappresentante del governo sudanese e del vice commissario per i diritti umani, Nada Al-Nashif, sui progressi dopo l’apertura di un ufficio nazionale, come stabilito nella risoluzione 42/35 dell’HRC nel Paese. ​
Al-Nashif ha informato il Consiglio che l’ufficio di Khartoum è pienamente operativo e lavora su “sei aree chiave”, che corrispondono alle priorità del governo che sono: il progresso dello sviluppo sostenibile attraverso i diritti umani; il rafforzamento dello stato di diritto e della responsabilità; il miglioramento della partecipazione e la protezione dello spazio civico; il rafforzamento dell’uguaglianza e la lotta alla discriminazione; la prevenzione delle violazioni e il rafforzamento della protezione dei diritti umani; l’aumento dell’attuazione dei risultati dei meccanismi internazionali per i diritti umani.
Al-Nashif ha sottolineato che l’ufficio dell’OHCHR in Sudan ha lavorato in “stretto coordinamento” con la Sezione per i diritti umani dell’UNAMID ed è pronto a “sostenere l’attuazione del mandato dell’UNITAMS sui diritti umani, come richiesto dal Consiglio di Sicurezza”. ​
Nel suo intervento, Al-Nashif ha anche elogiato il governo del Sudan per “aver migliorato la protezione e la promozione dei diritti umani”.

Questioni chiave e opzioni

L’aumento della violenza nel Darfur è una questione che i membri del Consiglio seguiranno da vicino, con alcuni membri preoccupati che tale violenza causi danni ai civili e metta ulteriormente alla prova il mandato dell’UNAMID. Se la violenza persistesse o peggiorasse, i membri del Consiglio sono pronti a convocare una riunione di emergenza entro fine ottobre.
La transizione dall’UNAMID all’UNITAMS è una priorità per il Consiglio. ​
Secondo la risoluzione 2524, il Segretario generale avrebbe dovuto avviare rapidamente la pianificazione e l’istituzione dell’UNITAMS, con l’obiettivo di raggiungere la piena capacità operativa il più presto possibile e di iniziare a realizzare gli obiettivi strategici della missione entro il 1° gennaio 2021.
Anche la struttura suggerita e lo schieramento geografico di cui il Segretario Generale dovrebbe riferire entro fine ottobre sarà di grande interesse, così come l’impatto del COVID-19. ​
La risoluzione 2524 ha chiesto al Segretario Generale di nominare un Rappresentante Speciale per il Sudan e un capo della Missione dell’UNITAMS, oltre che un Vice Rappresentante Speciale come Coordinatore Residente dell’ONU.

Conclusioni

L’exit strategy dell’UNAMID e l’istituzione dell’UNITAMS sono da tempo oggetto di controversie. Nonostante l’adozione unanime delle risoluzioni 2524 e 2525 a giugno, durante i negoziati sono emersi chiari disaccordi in riferimento al monitoraggio e al resoconto dei progressi nell’attuazione del Documento costituzionale del Sudan, sulla fornitura di assistenza tecnica nei settori dello stato di diritto e della riforma del settore della sicurezza e sul resoconto della situazione dei diritti umani. Vi sono state anche forti divergenze sui potenziali compiti della missione in materia di protezione dei civili. ​
Mentre alcuni membri ritenevano che la nuova missione dovesse avere un mandato per la protezione dei civili, altri (in particolare Russia e Cina) si sono opposti all’inclusione di tali compiti nel mandato.
La mancanza di un sufficiente sostegno a chi nel Consiglio ha chiesto di discutere dell’escalation di violenza in Sudan nel corso delle ultime consultazioni a porte chiuse, evidenziano come persistano profonde divisioni sul Paese.

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