I colloqui di pace in Svizzera dell’agosto 2024, sotto l’egida degli Stati Uniti, sono un tentativo di strappare il Sudan dalla grave crisi umanitaria e politica in cui è precipitato dallo scoppio della guerra, nel 2023. Oltre alle decine di migliaia di morti, agli stupri usati come arma di guerra e agli sfollati, il conflitto ha completamente destabilizzato il Paese. Quello che è il terzo Paese più grande dell’Africa, che prima della guerra contava 45 milioni di abitanti, e che è crocevia tra il mondo arabo e quello africano, è ormai un failed State anche a causa della crisi economica in cui versa già da tempo, a cui contribuiscono le catastrofi naturali e naturalmente, la guerra.
In questa guerra dimenticata si fronteggiano due fazioni che lottano per la conquista del potere e non per la difesa di ideali. Da un lato, vi sono le forze armate sudanesi, capeggiate da generale Abdel Fattah al-Burhane, ex braccio destro dell’ex Presidente El-Bashir, e di fatto a capo del Paese, appoggiato dall’Egitto e dagli Stati Uniti; mentre dall’altro lato, vi è il gruppo paramilitare delle Rapid Support Forces (RSF), con alla guida il generale Mohammed Hamdane Daglo, il numero due del Paese. Quest’ultimo, in particolare, conosciuto anche come “Hemedti”, è stato accusato di gravi crimini commessi in Darfur, perché infatti questa milizia era stata creata proprio per sedare con la violenza la ribellione in Darfur. Hemedti è stato anche accusato di aver represso nel sangue le manifestazioni di protesta a Khartoum. E’ in affari con la brigata Wagner, che anche grazie al suo appoggio è penetrata nel cuore dell’Africa. Dunque, questa milizia è appoggiata dalla Russia. Inoltre, si afferma che Hemedti fornisca mercenari a Paesi stranieri, come gli Emirati Arabi, che li avrebbero impiegati nella guerra in Yemen. Infine, il gruppo paramilitare controllerebbe il traffico dei migranti e sopratutto le miniere d’oro presenti in Sudan. E’ sopratutto attorno agli interessi predatori legati al controllo di questi giacimenti che ruota questo conflitto, oltre all’accaparramento degli aiuti economici provenienti dai Paesi esteri. Ma attualmente il Paese non può godere più neanche degli aiuti umanitari provenienti dall’estero, a causa delle numerose morti tra i cooperanti.
Quanto alla commissione di gravi crimini, anche l’ex Presidente El-Bashir non era stato risparmiato da accuse di tale rilevanza. Nel 2009 e 2010, egli era stato raggiunto da due mandati di arresto da parte della Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Questa incriminazione aveva fatto scoppiare un caso internazionale vertente sulla sua immunità come Capo di Stato, rispetto alla quale si erano formati due schieramenti opposti. Ovvero tra coloro che ritenevano che tali mandati di cattura non potessero essere eseguiti per via dell’immunità di cui godeva El-Bashir e quanti, invece, sostenevano che si dovesse comunque procedere perché la Corte Penale Internazionale non riconosce tali immunità. Questo era quanto accaduto durante una visita a Pretoria di El-Bashir durante un Summit dell’Unione Africana, nel 2005, quando il Sud Africa si rifiutò di eseguire l’arresto e la consegna alla Corte Penale Internazionale dell’allora Presidente del Sudan. Alla fine della vicenda il Sud Africa, pur essendo tenuto a cooperare con la Corte Penale Internazionale in quanto Stato Parte al suo Statuto, si rifiutò di arrestare El-Bashir, né quest’ultimo si consegnò spontaneamente per essere giudicato, men che meno fu arrestato in Sudan, ciò che gli garantì l’immunità, oltre che l’impunità.
In passato, entrambi i generali che oggi si fronteggiano avevano operato insieme e dato il loro sostegno all’ex Presidente Omar El-Bashir, poi destituito manu militari nel 2019, dopo un trentennio alla presidenza del Paese. Al momento del golpe, la società sudanese era scesa nelle piazze poiché stanca del dispotismo subito così a lungo. Era la “rivoluzione del 2019”, una rivoluzione popolare, ma attuata dalle forze armate. La popolazione civile, infatti, aveva appoggiato i militari nella speranza di una futura e autentica transizione democratica. Ma il governo di transizione che ne era seguito fu spodestato proprio dall’esercito, nel 2021, con l’arresto del Primo Ministro Abdallah Hamdok e dei membri del suo governo. Malgrado le massicce proteste, il Paese era ritornato nelle mani dei militari mediante un ennesimo colpo di stato per mano del generale Abdel Fattah al-Burhane.
Oggi, si può dire che nulla sia cambiato dal trentennio autocratico di El-Bashir, poiché si contendono il potere proprio due esponenti che di quel regime sono stati parte integrante e che con quel sistema dispotico intendono governare sine die il Paese, visto che la transizione democratica viene sempre procrastinata.
L’impegno internazionale in favore di una soluzione pacifica al conflitto mira ad evitare che la guerra trascini anche i Paesi confinanti, destabilizzando l’intera regione. V’è da chiedersi se questi sforzi occidentali contro un allargamento del conflitto siano spinti dal timore che anche l’Occidente possa essere coinvolto in una guerra da cui non trarrebbe un grande vantaggio o se anche su questa regione dell’Africa si misura il confronto tra Stati Uniti e Russia, come parrebbe dalla simmetrica ripartizione delle alleanze tra le due parti in conflitto. E’ probabile che entrambe le ragioni si celino dietro quest’impeto solidaristico che ha portato al tavolo delle trattative di pace i due contendenti. In questo caso è meglio non porsi troppe domande, il risultato è ciò che conta.