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Sudan, emergenza giustizia: violenza domestica sulle donne resta a livelli elevati

Una vera e propria emergenza giustizia in Sudan sta scuotendo i tribunali sudanesi. Vittime ancora una volta le donne che, a differenza del passato, denunciano gli abusi subiti.
Nel Paese che da quasi due anni, dopo la caduta del sangiinario regime di Omar Hassan al Bashir l’11 aprile del 2019, ha avviato una radicale opera di riforma sui diritti della popolazione femminile,
la violenza domestica resta a livelli elevatissimi.
A rilevarlo un rapporto delle Nazioni Unite sulla condizione delle donne nel Paese a 30 anni dall’insediamento del regime islamista rovesciato da proteste popolari supportate dall’esercito.
Nell’ambito di uno sforzo congiunto per combattere la violenza di genere, l’Onu e il ministero per lo Sviluppo sociale sudanese hanno condotto una prima valutazione qualitativa a livello nazionale dei diritti al femminile nel paese.

Il gabinetto presieduto dal primo ministro Abdalla Hamdok lo scorso aprile ha approvato la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Ma la mossa è stata criticata dai gruppi di attiviste per i diritti delle donne perché l’approvazione non includeva tre articoli fondamentali che affermano l’uguaglianza tra uomini e donne in questioni quali matrimonio, divorzio e genitorialità.
Il rapporto, che cerca di colmare una lacuna di dati sulla violenza di genere in Sudan, fa emergere che a correre maggiori rischi di abusi sessuali sono soprattutto le donne che svolgono occupazioni informali ma anche sfollate e rifugiate ospitate in campo profughi.
No o è un caso che le aree segnalate come “maggiormente a rischio di violenza sessuale” sono quelle rurali e distanti dalla capitale.
Tra i dati rilevanti anche quelli relativi ai
matrimoni forzati, che resta una pratica comune in Sudan. In particolare emerge che il fenomeno è strettamente connesso alla negazione dell’istruzione. È ancora vivo in molti il ricordo di un caso che ha visto protagonista una quindicenne costretta a sposare un uomo più grande di lei e che all’ennesimo tentativo di violenza del marito ha reagito uccidendolo.
Noura Hussein, pur avendo agito per legittima difesa, era stata condannata alla pena di morte.
Dopo la sentenza era iniziata una campagna per chiedere la sua liberazione che aveva raccolto quasi un milione e ottocentomila firme in tutto il mondo, Questa incredibile mobilitazione aveva convinto il Sudan a revocare la condanna, tramutata in cinque anni di carcere.
La condanna a morte inflitta a Noura Hussein in primo grado si era basata su una legge del 1991 che non riconosce lo stupro coniugale. Legge ancora in vigore.
Secondo la valutazione qualitativa a livello nazionale dei diritti delle donne, in Sudan circa il 38% si sposa prima dei 18 anni.
Quello sulle violenze domestiche nei confronti delle giovani costrette a matrimoni precoci è proprio il dato più preoccupante del rapporto, in particolare la violenza fisica da parte dei fratelli contro le sorelle e dei mariti contro le mogli.
I ricercatori hanno inoltre sottolineato che la violenza di genere “non è ancora considerata una grave violazione dei diritti delle donne”.
Le violazioni delle restrizioni di movimento è la principale causa di abusi in casa: donne e ragazze vengono picchiate soprattutto se escono senza permesso.
Sembra, dunque, che i progressi fatti a Khartoum in materia di diritti non si siano trasformati in migliore qualità di vita per la popolazione femminile.
Nel novembre 2019, il governo di transizione sudanese
guidato da Hamdok, un economista che ha alle spalle importanti esperienze internazionali, ha abrogato la legge sull’ordine pubblico, una legge arcaica che limitava la possibilità di muoversi e operare delle donne.
Ma non è stato l’unico atto in tal senso di u
na transizione che si è tinta di rosa con la cancellazione di altre norme vessatorie come gli articoli del codice penale relativi all’abbigliamento e alle libertà personali basate sulla Sharia, la legge islamica. Altro importante risultato ottenuto è stato quello della criminalizzazione delle mutilazioni genitali femminili, punite con multe esose e la detenzione fino a 7 anni di carcere.
“Nonostante le intimidazioni e le vessazioni che fin dalla nascita subivamo, durante le rivolte siamo scese in piazza in migliaia: almeno il 70% della popolazione femminile. Chiedevamo democrazia e libertà ma anche politiche di tutela e di protezione delle donne. Oggi il governo sta portando avanti un cambiamento radicale nei confronti delle donne, che va dalla cancellazione del divieto di viaggiare senza il permesso di un maschio della famiglia, alla criminalizzazione dell’infibulazione” spiega Amira Abdelnabi, avvocato e attivista politica che durante le rivolte era stata arrestata e tenuta in carcere una settimana per aver partecipato a una manifestazione a Khartoum.
Con l’approvazione del testo di legge che Amira stessa ha contribuito a scrivere, il governo ha trasformato in reato un’usanza arcaica. La nuova norma punisce tanto la pratica clandestina quanto gli interventi effettuati in strutture mediche.
Ma ancora tanto resta da fare per far sì che sia davvero sradicata in tutto il paese.

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