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Fenomeni sociali e giustizia

Sud Sudan, la prioritaria protezione dei civili nel mandato variegato dell’UNMISS

Il ruolo determinante della missione in questo teatro di guerra è emerso dopo l'esplosione del conflitto civile nel 2013

A seguito del risultato del referendum del 9 gennaio 2011, il Sud Sudan è divenuto il più giovane Stato al mondo ad aver acquisito l’indipendenza, a favore della quale si era espresso il 98.83% dei votanti. Il referendum era stato organizzato dal Governo nazionale del Sudan e dal Governo del Sud Sudan, che avevano chiesto alla popolazione del Sud Sudan di esprimersi a favore dell’unità nazionale o dell’indipendenza. La proclamazione del nuovo Stato aveva fatto seguito a un lungo processo di pace sfociato nel Comprehensive Peace Agreement (CPA) del 9 gennaio 2005, firmato dal Governo sudanese e dal Sudan People’s Liberation Movement (SPLM), che aveva messo la parola fine a 20 anni di guerra civile. Il Sud Sudan ha quindi dichiarato la propria indipendenza il 9 luglio 2011 e, in base all’art. 4, par. 2, della Carta delle Nazioni Unite (NU), è divenuto membro dell’Organizzazione il 14 luglio 2011, mediante la risoluzione 65/308, adottata per consensus dell’Assemblea Generale su raccomandazione del Consiglio di Sicurezza. Successivamente, esattamente il 15 agosto 2011, il Sud Sudan è stato ammesso nell’Unione Africana (UA),
In Sud Sudan, i due principali gruppi etnici dello Stato, dinka e nuer, si contendono il potere, ma il contesto politico-sociale vede il Paese spaccato in due. Da una parte il Sud, abitato da popolazioni di religione animista, laddove a Nord vivono comunità arabe di religione musulmana. La divisione tra le regioni settentrionali e meridionali è stata acuita in passato dalle politiche di separazione perseguite dalla potenza coloniale britannica durante i primi decenni del Novecento, che hanno favorito lo sviluppo del Nord, a scapito delle regioni meridionali. Un ulteriore elemento di conflittualità è sorto in seguito alla scoperta di giacimenti petroliferi, avvenuta nei primi anni Settanta, in gran parte localizzati nelle regioni del Sud, mentre il Nord detiene le infrastrutture necessarie al loro sfruttamento, ossia le raffinerie e le condotte verso il Mar Rosso. Ma al centro della conflittualità vi è essenzialmente la lotta per il governo del Paese.

In concomitanza con il risultato referendario del 2011, fu istituita la United Nations Mission in South Sudan (UNMISS) mediante la risoluzione 1996 (2011), poiché il Consiglio di Sicurezza ritenne che la situazione nel Sud Sudan rappresentava una minaccia alla pace e alla sicurezza dell’intera regione. Più precisamente, l’istituzione dell’UNMISS avvenne in un primo momento proprio su impulso dello stesso Governo del Sud Sudan, il quale aveva chiesto al Consiglio di Sicurezza di prorogare la presenza delle Nazioni Unite nel Paese. Inizialmente fu stabilita una durata di un anno, che si è rinnovata periodicamente sino alla risoluzione 2729 (2024), con cui il Consiglio di Sicurezza ha esteso il mandato dell’UNMISS fino al 30 aprile 2025. Questo si è reso necessario per prevenire il riaccendersi della guerra civile in Sud Sudan con tutta la scia di violenza che ne consegue e che rappresenta una minaccia per la sicurezza della popolazione civile, a cui il mandato dà assoluta priorità.
L’UNMISS comprende una componente militare, costituita da 7.000 unità, ed una componente civile, coordinate dal Rappresentante speciale del Segretario Generale. Si tratta di una missione c.d. “robusta”, in quanto i Caschi blu sono autorizzati ad usare tutti i mezzi necessari, quindi anche l’uso della forza, per proteggere la popolazione civile, laddove il Governo del Paese non sia in grado di provvedervi da solo, nonché per proteggere il personale delle NU e tutto ciò che ruota attorno ed è funzionale allo svolgimento della missione. Infatti, agendo ai sensi del Capitolo VII della Carta delle NU, l’UNMISS è autorizzata ad adottare tutti i mezzi necessari per adempiere il proprio mandato, tra cui in primo luogo la protezione pronta ed effettiva dei civili minacciati da violenza fisica in zone ad alto rischio, in cui sono state predisposte aree protette, c.d. UNMISS Protetion of Civilians sites (PoC sites).
Ma il mandato dell’UNMISS non è stato semplice ed in alcuni momenti ha subito l’ostilità dell’establishment politico e della popolazione. In verità, questi risentimenti verso le missioni di pace nel continente africano sembrano essere ricorrenti. Nel caso dell’UNMISS, questa ostilità montò a seguito dell’esplosione di una nuova ondata di violenza nel dicembre 2013, che fece precipitare il Paese in una grave crisi durante la quale furono sollevate verso l’UNMISS delle accuse infondate di mancanza di imparzialità a sfavore del Governo in carica e di supporto alle fazioni antigovernative. A ben vedere, l’imparzialità della missione è proprio una sua imprescindibile caratteristica che deve accompagnarne il mandato sino al termine delle ostilità.

Il ruolo determinante dell’UNMISS in questo teatro di guerra emerse proprio immediatamente dopo l’esplosione del conflitto, nel 2013, quando decine di migliaia di civili, fuggendo dalle zone dei massacri, si riversarono nelle località in cui erano collocati i compounds dell’UNMISS, a Juba, Bor, Akobo, Melut ed altre località. Qui i Caschi blu offrirono protezione ai civili, evitando il massacro di Srebrenica del 1995, in cui l’accesso ai compounds dei Caschi blu olandesi fu interdetto a 8.000 civili, tutti ragazzi e uomini bosgnacchi, che chiedevano protezione, rifiuto che in seguito determinò la condanna del battaglione olandese per il genocidio compiuto da parte dei serbi. Nel caso dell’UNMISS questo non avvenne e fu assicurata protezione a 85.000 civili, malgrado l’insufficienza dei mezzi a disposizione in quel momento. Ma nel complesso si parla di assistenza fornita a circa 200.000 civili tra il 2013 e 2014, i quali hanno trovato rifugio in PoC sites, che hanno protetto la popolazione da un molto probabile genocidio. La risoluzione 2132 (2013) rinnovò e rafforzò la missione con personale e mezzi aggiuntivi, mentre con la risoluzione 2109 (2013) la missione fu prorogata fino al 15 luglio 2014. Nel 2018, la firma del Revitalized Peace Agreement portò alla nomina di un governo transitorio di unità nazionale e a una graduale attenuazione della violenza.
Il bilancio della missione va commisurato alla molteplicità delle sue finalità. Infatti, oltre alla protezione della popolazione civile, tra gli obiettivi perseguiti vi sono: l’aiuto al Governo verso una transizione democratica, da attuarsi attraverso lo svolgimento di competizioni elettorali free e fair; il favorire la libertà e indipendenza dei mezzi di informazione; l’agevolare una più incisiva partecipazione delle donne nei processi decisionali; la promozione dello stato di diritto; l’attuazione di politiche a favore del disarmo e del ritorno dei combattenti; la creazione delle condizioni necessarie ad assicurare l’assistenza umanitaria; il supporto all’implementazione del Revitalised Peace Agreement e del processo di pace; il monitoraggio e le attività di

inchiesta anche sulle violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario, sopratutto nei confronti di donne e bambini, e in relazione a conflict-related sexual violence; l’aiuto al Governo nella partecipazione ai trattati sui diritti umani più importanti, affinché quegli standards siano un riferimento per la legislazione interna, in particolare per ciò che concerne i diritti delle donne e dei bambini. In tale prospettiva, l’UNMISS ha attuato campagne di sensibilizzazione relativamente ad alcune usanze tradizionali, quali i matrimoni forzati, oltre ad aver impartito corsi di formazione sulla violenza di genere. Particolare enfasi è stata poi data dall’UNMISS, insieme allo United Nations Children’s Fund (UNICEF), alla questione del reintegro dei bambini- soldato.
Come abbiamo detto, non sono infrequenti i casi in cui le operazioni di peace- keeping sono criticate aspramente, sopratutto dalle popolazioni locali e spesso a ragion veduta. La risoluzione 2272 (2016) conferma le preoccupazioni del Consiglio di Sicurezza sul buon andamento e sul rispetto della legalità nell’espletamento di queste missioni. A questa risoluzione avevano condotto le gravissime accuse mosse al contingente congolese della MINUSCA di sfruttamento e abuso sessuale nella Repubblica Centrafricana. Questi episodi, che furono dimostrati, avevano indotto il Consiglio ad attuare una politica di tolleranza zero in base alla quale il Segretario Generale è autorizzato alla sostituzione del contingente di quei paesi che non riescono a garantire la legalità e perseguire i responsabili di gravi illeciti. In particolare, la MINUSCA è un’operazione molto criticata anche per altre vicende non legate specificamente ad abusi sessuali.
Quanto all’UNMISS, i compiti assegnati a questa operazione di pace sono ambiziosi e molteplici. A partire dalla protezione dei civili, a favore dei quali sono stati efficacemente istituiti i PoC sites, si direbbe che i risultati raggiunti sino ad ora non abbiano deluso le aspettative. Pertanto, è possibile una contro-rappresentazione di quella realtà che giustamente stigmatizza talune operazioni di peace-keeping. Altro argomento è la capacità di queste missioni di portare stabilità in aree ad alta conflittualità, nel caso dell’UNMISS, questo potrà essere valutato solo col passare del tempo.

Bibliografia:
– Maria Vittoria Zecca, “L’accesso del Sud Sudan all’indipendenza: analisi e problemi aperti”, La Comunità internazionale, 4/2013;
– Angela M. Lloyd, “The Sothern Sudan: A Compelling Case of Secession”, in Colum. J. Trans. L., 1994-1995;
– Jon Temin, “Sudan between Peace and War”, in Georgetown JIL, 2011;
– Pietro Gargiulo, Le Peace keeping Operations delle Nazioni Unite, Editoriale
Scientifica, Napoli, 2000;
– “Assessing the Effectiveness of the United Nations Mission in South Sudan/UNMISS”, Report 2/2019, Norwegian Institute of International Affairs;
– Giovanni Cellamare, Le operazioni di peace-keeping multifunzionali, Giapichelli, Torino, 1999.

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