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Analisi & approfondimenti

Seguire l’esempio ugandese nella risoluzione dei conflitti

Betty Oyella-Bigombe è stata una donna ugandese che ha segnato la storia del suo Paese. Nella sua veste di mediatrice, ella instaurò dei contatti con alcuni capi di milizie che ancora insanguinano il Paese, come la Lord’s Resistance Army (LRA), alla cui guida vi è Joseph Kony, da anni ricercato dalla Corte Penale Internazionale in…

Betty Oyella-Bigombe è stata una donna ugandese che ha segnato la storia del suo Paese. Nella sua veste di mediatrice, ella instaurò dei contatti con alcuni capi di milizie che ancora insanguinano il Paese, come la Lord’s Resistance Army (LRA), alla cui guida vi è Joseph Kony, da anni ricercato dalla Corte Penale Internazionale in quanto accusato di crimini internazionali tra i quali il reclutamento di bambini-soldato. La Bigombe penetrò nella foresta e stabilì un dialogo con Kony, facendosi portavoce dei rappresentanti governativi. Riuscì a far dialogare le parti contendenti e a far sedere al tavolo delle trattative un leader sanguinario come Kony. Questo primo contatto portò in seguito a dei veri negoziati tra i ribelli e i ministri ugandesi, che per rendere omaggio alla mediatrice furono denominati Bigombe talks, ai quali assistettero anche numerosi esponenti della comunità internazionale. La Bigombe assunse il ruolo di capo negoziatrice a nome del governo dell’Uganda, divenendo poi mediatrice indipendente nell’ambito del processo di pace e riuscendo a far ratificare una legge sull’amnistia che avrebbe fatto uscire dalla foresta i ribelli. La Bigombe portò avanti la sua missione nonostante intimidazioni, minacce di morte e pregiudizi legati alla sua figura di donna coinvolta in un compito tradizionalmente attribuito agli uomini. Fu nominata donna dell’anno dell’Uganda nel 1994.

Quello di Betty Oyella-Bigombe resta tuttavia un caso raro, nonostante gli sforzi e i buoni propositi, il ruolo delle donne e la parità di genere nella risoluzione dei conflitti rimangono marginali. Questo malgrado diverse risoluzioni dell’ONU, prima fra tutte la ris. 1325/2000 del Consiglio di Sicurezza su Donne, Pace e Sicurezza (WPS), che affronta proprio l’impatto sproporzionato dei conflitti armati sulle donne e riconosce il contributo, spesso sottovalutato, del personale femminile nella prevenzione e risoluzione dei conflitti e nelle operazioni internazionali.

Vi sono state donne a capo di movimenti per la pace impegnate nella ripresa delle comunità nelle situazioni postbelliche, ciononostante le donne risultano ancora quasi del tutto estromesse dai negoziati per la pace e dai processi di ricostruzione. I dati ci dicono che le donne continuano ad essere presenti nelle operazioni internazionali in numero eccessivamente inferiore ed inoltre, che solo una minima parte è coinvolta nei processi decisionali a causa di pregiudizi, stereotipi di genere e normative discriminatorie che avvantaggiano il genere maschile.

Sorprende un po’ che sia stata proprio l’Africa, un continente devastato dai conflitti e dove la voce delle donne fatica a farsi sentire, ad offrire un esempio virtuoso di un ruolo ancora negato alle donne. Eppure non sono poche le reti create negli ultimi tempi in favore di una maggiore partecipazione delle donne nei processi di pace, come: Women Mediators across the Commonwealth (WMC), African Women Mediators (Fem Wise-Africa), Femmes Africa Solidarité (FAS), Nordic Women Mediators (NWM) e la Rete delle Donne Mediatrici nel Mediterraneo (Mediterranean Women Mediators Network, MWMN).

La normativa internazionale attualmente in vigore richiede che tutte le missioni di mantenimento e di costruzione della pace promuovano l’inclusione della parità di genere a tutti i livelli. Infatti, al fine di irrobustire il ruolo delle donne in tutte le fasi della prevenzione dei conflitti, il 18 ottobre 2013, il Consiglio di Sicurezza ha adottato la ris. 2122/2013, che prevede una serie di misure più incisive a favore delle donne onde garantire la loro partecipazione in tutte le fasi di prevenzione, risoluzione e riconciliazione postbellica, imponendo agli Stati membri, alle organizzazioni regionali e all’ONU l’onere di garantire loro la possibilità di partecipare alle trattative di pace. Esiste, altresì, una guida volta a delineare la partecipazione delle donne nei processi di mediazione, la Guidance on core UN Gender Inclusive Mediation Commitments, in base alla quale i mediatori e i loro team dovrebbero, tra l’altro, utilizzare strumenti normativi e giuridici al fine di promuovere un’effettiva partecipazione delle donne alla soluzione pacifica delle controversie.

La mediazione è quel processo secondo il quale una parte terza assiste le parti coinvolte nel conflitto, aiutandole, con il loro consenso, a prevenire, gestire o risolvere il conflitto e a concludere accordi reciprocamente accettabili. E’ stato dimostrato come la partecipazione delle donne ai processi di pace sia fondamentale per il loro successo. Già nel 2011 l’Assemblea Generale dell’ONU aveva approvato all’unanimità una risoluzione, la A/RES/65/283, sul “Rafforzamento del ruolo della mediazione nella soluzione pacifica delle controversie, prevenzione e risoluzione dei conflitti”, che incentivava proprio la partecipazione delle donne negli sforzi per la risoluzione dei conflitti e nei processi di pace. Invero, la presenza delle donne nelle operazioni di peace-keeping rende i processi di pace più sostenibili ed efficaci rispetto ai casi in cui il processo è portato avanti solo da uomini. E’ stato altresì riscontrato che la partecipazione delle donne ai negoziati di pace aumenta considerevolmente la qualità e la durata della pace. Questa consapevolezza ha pertanto spinto l’ONU a promuovere il ruolo delle donne come mediatrici in contesti bellici. Al momento i propositi sono buoni e tutto lascia intendere che si è sulla strada giusta, ma i conflitti attualmente in corso, non solo in Africa, ci dicono che avremmo bisogno di tante donne come Betty Bigombe.

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