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Ricordiamo Giulio, Patrick e tutti i desaparecidos d’Egitto che non conosciamo

Le torture subite da Giulio Regeni, la sua fine atroce in Egitto, hanno segnato profondamente ognuno di noi.
Oggi, nel giorno in cui inizia il processo ai suoi aguzzini, rinnoviamo con determinazione e fermezza richiesta di giustizia. Come determinata è la richiesta di libertà per Patrick Zaki, che di pari passo con #veritapergiulioregeni deve e può proseguire più intensa che mai.
Ed è per questo che abbiamo voluto che l’immagine emblematica che ci ha regalato Alekos Prete, artista e comunicatore di primo piano, quale copertina del nostro speciale: due mani che vogliono unirsi in una stretta. I braccialetti. L’Egitto sullo sfondo.
Il tutto per dire: Giulio e Patrick siamo noi.
Per rispetto di Giulio, del suo impegno in Egitto, la sua azione di denuncia delle violazioni continue nei confronti degli ambulanti, sul cui sindacato stava svolgendo una ricerca, oggi è giusto ricordare tutti gli altri ‘Giulio’ – e le Giulie – che non conosciamo e di cui non sapremo mai nulla.
Come Ayman Ismail.
Ayman aveva da poco compiuto 21 anni, era uno studente del College of Dentistry.
E’ scomparso dopo essere stato arrestato e portato in un centro di detenzione della polizia al Cairo.
Era alla guida della sua auto è stava rientrando verso casa dopo la preghiera del venerdì, il 13 novembre, del 2018 quando fu coinvolto in un incidente stradale. Aveva tamponato il veicolo che lo precedeva. Né lui né il conducente dell’altra auto avevano riportato ferite e stavano discutendo per accordarsi su quanto Ayman dovesse pagare per il danno causato.
Gli agenti arrivati sul posto, dopo aver controllato la sua vettura, da cui hanno preso del materiale divulgativo sulle torture subite dai Fratelli musulmani arrestati dopo la caduta di Mohamed Morsi, lo hanno prelevato per portarlo nella stazione di al-Dugi dove aveva passato la notte.
Da quella stazione di polizia Ayman non è più uscito, anche se le autorità locali sostengono il contrario.
La sua auto, con all’interno il suo portafoglio e il cellulare, è rimasta parcheggiata al di fuori del centro di detenzione.
.I suoi parenti e i suoi amici dal primo momento hanno denunciato che si trattava di una ‘scomparsa forzata’: Ayman era un attivista per i diritti umani e nonostante fosse consapevole di quanto la sua azione di sensibilizzazione a favore del rispetto della legalità nei confronti dei detenuti in tutto l’Egitto, sottoposti a violenze estreme sia fisiche che sessuali, non si nascondeva.
Anzi. Con il suo account di Twitter, poi oscurato, aveva diffuso il testo delle lettere fatte uscire di contrabbando dai luoghi di detenzione, scritte sia da chi è rinchiuso nelle carceri del paese che nelle stazioni di polizia.
La tortura, da lungo tempo praticata dalle forze di sicurezza egiziane, è lo strumento per estorcere confessioni a chi è ritenuto una spia o semplicemente o un oppositore.
Da decenni le organizzazioni internazionali denunciano le continue violazioni dei diritti umani, perpetrate impunemente da agenti e funzionari dello Stato.
Dall’inizio del 2014, secondo la Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà, ci sono stati almeno 20 morti in carcere.
Un’indagine sul reparto di massima sicurezza del penitenziario di Tora, grazie a testimonianze dirette, descrive nei dettagli come i prigionieri siano costantemente torturati, subiscano aggressioni sessuali: spogliati, costretti in posizione prona e stuprati con tubi.
“Quando non sono le guardie le guardie a torturare i prigionieri, lo fanno altri detenuti su loro ordine. Usano fili elettrici per causare scariche elettriche ai nostri corpi già martoriati dalle botte” è il grido di dolore di Ahmed Elhaji, picchiato, violentato e trattenuto a forza fino alla rottura del braccio sinistro.
Nella lettera che ci arriva attraverso Amnesty International sono descritti anche altri episodi, come quello che vede come carnefice un funzionario dei servizi segreti responsabile degli interrogatori a Tora e vittima un ragazzo, poco più che ventenne, Ahmad Ismail, costretto a bere una miscela di acqua, olio, sale, detersivo in polvere, latte e tabacco fino a quando non ha vomitato sangue.
Storie terribili, che disegnano un quadro che però in molti fingono di non vedere.
Nessuno chiede conto al governo egiziano di quanto avviene nelle proprie carceri, almeno fino a quando ad essere soggetto a trattamenti inumani è uno straniero.
In questi casi, quando non ‘devono’ trapelare notizie sulle torture subite da persone di altre nazionalità arrestate in Egitto, oppure egiziani detenuti illegalmente, dopo le violenze arriva la ‘scomparsa forzata’.
Nel 2014 un gruppo di lavoro delle Nazioni Unite, costituito per indagare sulle denunce delle organizzazioni non governative, aveva accertato numerose sparizioni anomale.
La relazione finale riportava 52 casi sui quali il governo di al-Sisi si era rifiutato di fare chiarezza.
Ma è stato nel 2015 che si è registrata una vera e propria escalation. L’Egyptian Commission for Rights and Freedom, organizzazione indipendente egiziana ideatrice della campagna «Stop Enforced Disappearance», ha registrato oltre 1.700 persone scomparse in un anno, una media che supera i quattro al giorno.

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