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Regeni, ambasciatore generazione bisognosa di luoghi. Il libro “Giulio fa cose”

L’uscita di “Giulio fa cose”, il bel libro scritto dai suoi genitori con l’aiuto dell’avvocatessa Alessandra Ballerini, ci induce a riflettere su vari aspetti della nostra modernità. Il primo è l’ingiustizia perché non è ammissibile l’ipocrisia di quanti oggi invocano il ritiro dell’ambasciatore italiano in Egitto omettendo strumentalmente di dire che vi fu rimandato dal governo Gentiloni, ministro degli Interni Minniti, il giorno di Ferragosto del 2017, al fine di non farlo sapere quasi a nessuno e di non consentire all’opinione pubblica di esprimere la propria sacrosanta indignazione. Se vogliamo cercare le cause del declino della sinistra negli ultimi anni, dobbiamo mettere in fila tutta una serie di dati, fra cui questo: imbarazzante e, soprattutto, allarmante, in quanto denota una concezione della democrazia in cui i princìpi vengono sempre dopo gli interessi o sono, comunque, sacrificabili a essi. Gli unici che hanno il diritto di chiedere il ritiro dell’ambasciatore, pertanto, sono proprio loro, Paola e Claudio Regeni, che da quattro anni si battono affinché venga fatta luce su quanto accadde al Cairo tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio del 2016. 
E poi ci insegna un’altra cosa, non meno importante: un aspetto troppo spesso tralasciato nel nostro dibattito pubblico. Ci ricorda, infatti, che anche in questa stagione di social network e realtà digitali c’è ancora bisogno di luoghi fisici, sedi, posti in cui incontrarsi, discutere e riflettere. Ce lo ricorda la Giornata della Memoria, certo, ma ce lo ricordano anche le tante iniziative promosse, in tutta Italia, in ricordo di Giulio, a conferma del fatto che una comunità, per essere e sentirsi tale, abbia bisogno non solo di conoscersi ma anche di guardarsi negli occhi. 
Giulio, del resto, era questo: un cercatore di notizie, un idealista concreto, un utopista indomito ma, più che mai, un ragazzo che girava il mondo e non aveva paura di andarne a scoprire gli angoli più infidi per raccontarli a un Occidente troppo prigioniero di se stesso e del proprio narcisismo. Giulio non si accontentava del sentito dire, delle riflessioni altrui, delle parole pronunciate a mezza bocca da qualcuno e, meno che mai, delle verità ufficiali: andava sul campo, incontrava, osservava con i propri occhi e non gli bastava mai una singola versione. Per questo ha trovato la morte a soli ventotto anni: per la fatica di capire e il desiderio di descrivere il mondo, per la gioia con cui conduceva le sue ricerche e la puntigliosa meticolosità che metteva in ogni suo studio e in ogni sua battaglia. Faceva cose, per l’appunto, e chissà dove sarebbe potuto arrivare se la violenza, l’odio e la follia indiscriminata di un Paese tra i più pericolosi al mondo non lo avessero stroncato nel fiore degli anni, mentre cercava, ancora una volta, verità reali che contrastassero con quelle di comodo del regime.
Potremmo dire, volendo usare una definizione che ci è cara, che Giulio era un “giornalista-giornalista”, uno che se le andava a cercare ed era fiero di farlo, uno che rischiava in prima persona e leggeva, leggeva, leggeva, fin da bambino, non per il gusto spocchioso di mettersi in mostra ma per l’irrefrenabile desiderio di rendere migliore questo mondo attraverso il suo sapere.
Giulio, quattro anni fa. Un libro, mille interrogativi ancora senza risposta e la certezza che, già da vivo ma ancor più da morto, sia diventato l’ambasciatore di una generazione. Il lato migliore, l’esempio e il punto di riferimento di chi, non avendo modelli positivi cui rifarsi, ha capito di doversi muovere da solo in un contesto sempre più incerto e periglioso. Giulio continua a far cose perché siamo tutti noi.
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