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RD Congo, quei misteri e quei dubbi che reclamano verità per Luca, Vittorio e Mustapha

Il dolore è sempre lì, non passa. Elaborare quanto accaduto lunedì scorso sulla strada che da Goma si estende verso Rutshuru nella Repubblica democratica del Congo non è cosa facile. Sì fa fatica ad accettare ciò che mai sì sarebbe creduto possibile.
Ma i nuovi elementi emersi sull’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista del World food program Mustapha Milambo chiamano a una riflessione doverosa e a una richiesta di chiarezza e assunzione di responsabilità.
In primo luogo, ci sono le accuse della moglie, Zakia , che sostiene qualcuno vicino a suo marito “lo abbia tradito “.
Messaggio diretto soprattutto agli ‘amici’ congolesi che hanno sempre negato di essere informati del viaggio del nostro diplomatico nel Congo orientale.
Ma i fatti dicono altro. Il ministero degli Esteri congolese era a conoscenza della volontà di Attanasio di partire.
Ad informare le autorità locali la stessa ambasciata che aveva fatto richiesta dell’utilizzo dell’area Vip dell’aeroporto di Kinshasa spiegando che la delegazione italiana (di cui faceva parte anche il vice direttore del World food program in Congo, Rocco Leone) era diretta a Goma per poi raggiungere Bukavu, dove avrebbe visitato le cooperative che stavano portando avanti i progetti del Wfp.
Ma da Kinshasa hanno replicato che il 15 febbraio Attanasio aveva “comunicato a voce” al capo del protocollo congolese l’intenzione di non partire più.
Secondo elemento, più volte l’ambasciatore aveva chiesto il raddoppio della scorta che la Farnesina, due anni prima, aveva ridimensionato.
A quel punto Attanasio aveva avviato l’acquisto di una macchina blindata ma l’auto purtroppo non era ancora arrivata a Kinshasa.
Terzo elemento, contrariamente a quanto ritenuto dal World Food Program, che aveva organizzato la consegna di aiuti in una zona considerata “sicura”, l’Osservatorio sicurezza Kivu aveva rilevato che in quell’area si era verificata una lunga catena di agguati e sequestri di persona (compresi due turisti britannici pochi mesi prima).
Dunque era evidente che in alcun modo potesse essere considerata una ‘safe area’.
Quarto elemento, il gruppo armato ha assalito la colonna di auto del Wfp nella zona conosciuta come “Three antennas” nelle cui vicinanze ha base una guarnigione di rangers congolesi dell’Icpp, intervenuta forse in maniera improvvida e innescando il conflitto a fuoco in cui hanno perso la vita i nostri due connazionali, il driver era già stato ucciso durante l’attacco al convoglio.
Eppure, secondo le testimonianze dei sopravvissuti, gli assalitori (che erano in sei e parlavano tra loro in ‘kiyarwanda’, lingua ufficiale in Ruanda) avrebbero agito come se avessero la certezza di poter operare indisturbati.
Quinto elemento, il ministero dell’interno congolese aveva affermato in un tweet (poi cancellato) che l’obiettivo dell’agguato era proprio l’ambasciatore italiano e che a organizzare il rapimento erano state le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda, che pur essendo stata accertata la loro presenza e le loro azioni nella zona dell’assalto al convoglio del Wfp, il parco dei monti Virunga, continuano a negare di essere responsabili.
Tirando le somme di quanto emerso nelle ultime ore, è cristallino che ci siano molte lacune e omissioni da parte delle autorità congolesi ma anche delle organizzazioni internazionali presenti nel Paese, dalle Nazioni Unite al World food program, senza dimenticare il ruolo del
Console di cui sì sa poco o nulla.
È del tutto surreale che non ci fosse piena consapevolezza che la zona in cui viaggiava il convoglio internazionale fosse ad altissimo rischio, sia perché area contesa fra bande di terroristi che rivendicano la libertà in Rwanda ed Uganda che di miliziani fuori controllo e jihadisti che per sopravvivere perpetrano razzie e atti di criminalità di ogni genere a danno della popolazione locale e di chiunque graviti nella sfera di loro controllo. Inoltre fonti sul terreno affermano che il 21 febbraio, 24 ore prima delll’agguato, nell’area compresa tra Kibumba e 3 antennes era stata proclamata l’allerta. Sul posto erano state rafforzate (teoricamente) le forze armate locali pronte a fronteggiare minacce imminente.
Dalle prove e dalle testimonianze raccolte tra chi ben conosce le realtà africane, appare un atto di estrema superficialità la mancanza di una scorta adeguata all’ambasciatore, al punto di suscitare il sospetto che possa celarsi ben altro che un ‘semplice’ attacco terroristico a monte dell’uccisione di Attanasio che potrebbe essere stato testimone di fatti scomodi.
Tanti sono i quesiti inespressi che devono essere chiariti. Al più presto.
Ma le risposte difficilmente arriveranno in tempi rapidi.
I misteri e i dubbi che avvolgono l’agguato che ha colpito il convoglio del Wfp il 22 febbraio sono tanti: dalla missione senza scorta in un territorio molto pericoloso, alla dinamica della sparatoria, dalla fuga degli assalitori alle omissioni delle autorità locali e di chi è stato diretto testimone di quanto avvenuto.
Se fino a ieri non era tempo di polemiche, oggi è inderogabile quello della verità e della giustizia.
Per Luca, Vittorio e Mostapha.

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