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RD Congo, adesso non cambi il modo di essere ambasciatori

La tragedia di Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo di cui abbiamo pianto la scomparsa meno di un mese fa, ha aperto un dibattito che non desta scalpore ma è presente, specie in ambienti diplomatici, e pertanto è doveroso darne conto. Ci si interroga, infatti, su cosa voglia dire essere ambasciatori in determinati paesi, là dove la democrazia è assente o zoppicante, dove i diritti umani sono pressoché sconosciuti e dove bisogna, per forza di cose, intessere rapporti con personaggi con i quali, in condizioni normali, ci rifiuteremmo di prendere anche solo un caffè. A tal proposito, ci preme far presente che sarebbe davvero un dramma se, dopo l’omicidio di Attanasio, dell’agente di scorta Iacovacci e dell’autista Milambo, dovesse cambiare il modo di rappresentare il nostro Paese là dove c’è più bisogno di cooperazione internazionale allo sviluppo e di un contrasto serio e sistematico di traffici e violenze.
La diplomazia non può e non deve essere mai accettazione di pratiche e metodi riprovevoli, non può mai prescindere dal concetto di etica, non può allontanarsi dai principî che caratterizzano il nostro stare insieme e, sia pur nel rispetto dell’autonomia di ciascun popolo, non può indurre chi è chiamato a farsene interprete a chiudere gli occhi al cospetto di una barbarie che deve, al contrario, essere denunciata e contrastata. Non c’è dubbio che il modo di agire di Attanasio fosse poco convenzionale, più simile, per l’appunto, a quello di un cooperante che a quello di una feluca ma era necessario, anzi indispensabile, per recare aiuto e conforto a un popolo adagiato su innumerevoli risorse ma costretto a vivere dai propri carnefici nella miseria più nera. E poiché i carnefici del popolo congolese sono, per lo più, i suoi governanti, un ambasciatore in Congo non può limitarsi a vivere nel proprio palazzo, senza assumere iniziative indipendenti e senza battersi per la promozione della dignità umana in opposizione all’inferno in terra che scorre ogni giorno sotto i suoi occhi.
L’auspicio,  dunque, è che nessuno pensi a una normalizzazione, che nessuno voglia tornare indietro, che nessuno dia ordini in tal senso e che fra le prerogative dei nostri rappresentanti in terra di frontiera ci sia sempre quella di contrastare l’abisso. Basti pensare a nazioni come l’Egitto del caso Regeni e di Patrick Zaki, alla Cina che coniuga alla perfezione crescita economica e repressione selvaggia, al Brasile di Bolsonaro che devasta l’Amazzonia e a molte altre realtà in cui non c’è giustizia, non c’è pace, la vita umana vale poco o nulla e battersi affinché le cose cambino è indispensabile per poter continuare a guardarsi allo specchio.
Ho aspettato diversi giorni prima di scrivere queste riflessioni perché era giusto far sedimentare il dolore, attendere che l’emozione si placasse e che si potesse tornare sull’argomento con quello spirito analitico che, in un primo momento, sarebbe potuto sembrare cinismo.
Il ruolo dell’ambasciatore è cruciale in un ordinamento democratico, tanto più per un paese geopoliticamente nevralgico come l’Italia. Proprio per questo sarà bene tenere alta la guardia, affinché non si torni indietro e la preziosa opera di Attanasio e di chi concepisce questo ruolo essenziale come lui prosegua e getti semi di pace in tante zone di guerra. Diplomazia non significa acquiescenza o, peggio ancora, indifferenza ai valori democratici. Chi la pensa così non è degno di rappresentarci in giro per il mondo.
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