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Migrazioni? Parliamone. Analisi di un fenomeno che non può essere sempre emergenza

Di migrazioni si parla, sempre più spesso e con sempre maggiore insistenza, in un’accezione fortemente negativa e stigmatizzante, raramente guardando al fenomeno in modo laico e completo, quasi mai affrontandolo in tutte le sue -molteplici e cangianti- peculiarità e sfaccettature: la complessità del fenomeno troppo spesso, infatti, viene semplificata fino ad essere banalizzata. E la banalizzazione non aiuta a capire. E non capire non aiuta a trovare, se necessario, soluzioni.
Affrontare il tema delle migrazioni significa infatti sia ribadire il concetto cardine -di per sè naturale, istintivamente e immediatamente comprensibile- della libertà di movimento, sia addentrarsi in un mondo enorme, difficile da vedere (e capire e, spesso, anche solo immaginare) nella sua interezza, un mondo che oggigiorno ci viene presentato deformato dalla propaganda e dalle falsità (ormai assurte, per troppi, al rango di verità), polarizzato politicamente e sfruttato mediaticamente, imbrattato dai venti d’odio xenofobo che soffiano sembre più forti.
Serve fare un bel respiro e spogliarsi da tanti preconcetti e pregiudizi.
Parlare di migrazioni significa, anche, rispondere ad alcune delle osservazioni frequentemente brandite -con sarcasmo, superbia, supponenza e arroganza- come una clava da una certa galassia informativa.
Proviamo a farlo. Passo dopo passo. Slogan dopo slogan.

Imbarcarsi è stata una loro scelta.
Perché una mamma “sceglie” di rischiare la vita del suo bambino su una barca, di notte, su un mare che non ha mai visto? Perché un giovane “sceglie” di stare stipato su un gommone, bagnato dal carburante che pare rinfrescare ma intanto scava e brucia la pelle? Perché non hanno alternative, non gliene lasciamo. A nessuno. Neppure a coloro che, secondo i trattati internazionali e le leggi nazionali, avrebbero diritto all’asilo e alla protezione. I canali di immigrazione regolare sono sostanzialmente chiusi, in Italia e in Europa. I corridoi umanitari sono purtroppo rari, estemporanei, non capillari e assolutamente insufficienti.
E l’asilo si può chiedere solo una volta entrati sul territorio nazionale (quindi non nelle ambasciate o consolati).
E no, le persone non possono arrivare qui “in aereo” e non perché -come qualcuno afferma- abbiano qualcosa da nascondere ma perchè non è consentito loro. Primo: non tutte le persone hanno possibilità di ottenere un passaporto. Ad esempio in Eritrea, col servizio militare a vita, chi scappa è di fatto un disertore. Secondo: non tutti i passaporti aprono le porte di tutti i paesi, anzi! La libera circolazione cui siamo abituati rappresenta, purtroppo, un’abitudine solo nostra. Ad esempio, senza necessità di visto, dall’Afghanistan -“paese sicuro” per Bruxelles- si possono raggiungere in tutto 26 paesi, ovviamente nessuno europeo; 38, nessuno europeo, dalla Libia; 33, nessuno europeo, dalla Somalia; ben 71 dalla Tunisia ma anche qui, con la sola eccezione della Serbia, nessuno europeo; 40, nessuno europeo, dal Sudan; 65, ancora nessuno europeo, dal Ghana; e così via. Terzo: il visto, che dovrebbe essere emesso dai consolati del paese di destinazione, non viene di fatto rilasciato a nessuno, proprio -nell’ottica della chiusura (sigillata) dei confini- per fermare le migrazioni.
Quindi, a tutti gli effetti, a quelle persone oggi non diamo alternative.

Le ONG sono complici dei trafficanti
Dobbiamo essere chiari: le ONG non sono “taxi del mare”, non incentivano le partenze e non sono in “combutta con i trafficanti”.
Le ONG -piuttosto- suppliscono alla (criminale) assenza delle missioni di ricerca e soccorso degli Stati e della UE, non c’erano prima della chiusura dell’operazione Mare Nostrum e non avrebbero motivo di stare in mare se ci fosse un sistema organizzato di ricerca e soccorso.
Sull’incentivare le partenze tanti sono gli studi (quelli dell’ISPI, ad esempio) e le evidenze che dimostrano in modo inequivocabile come (a parità di contesto) siano le condizioni metereologiche l’unico “pull factor” (fattore attrattivo) delle partenze.
Sull’essere complici del sistema è bene sottolineare come in “combutta con i trafficanti” siano, invece, proprio gli Stati: noi -come Italia (grazie anche al Memorandum Italia-Libia)- addestriamo, equipaggiamo e finanziamo (usando, con l’avallo europeo, anche le somme del Trust Fund UE per l’Africa) le milizie libiche che, sulle nostre motovedette e con una divisa linda addosso, rappresentano -loro, sì- un ingranaggio cruciale del traffico di uomini (e di petrolio e di droga), come testimoniato da diverse inchieste giornalistiche (Nello Scavo su Avvenire, ad es.).
Oggi decine di migliaia di uomini, donne e bambini sono intrappolate in un circolo di crudeltà con pochissime speranze di trovare vie d’uscita sicure e legali. Dopo aver sopportato “orrori indicibili” in Libia, i migranti rischiano la vita in mare per poi essere intercettati, ritrasferiti in Libia e consegnati agli stessi abusi dai quali cercano di fuggire.
E questo ciclo (analizzato e riportato da Amnesty International nel suo rapporto “Tra la vita e la morte”) ha l’obiettivo di bloccare le rotte migratorie dall’Africa all’Europa e avviene con la complicità, i finanziamenti e il supporto dell’Unione Europea.

Dobbiamo aiutarli a casa loro.
Innegabilmente, accanto al diritto di godere dell’asilo in altri stati, c’è quello di continuare a vivere nel proprio paese, senza essere costretti ad abbandonare famiglia, amici, lingua, tradizioni, abitudini, lavoro, attività, associazionismo, conoscenze,…
Parlare di “casa loro” significa affrontare le cause vere e profonde che spingono le persone a partire. E, a beneficio di coloro che spesso urlano “non scappano da nessuna guerra!”, non si tratta solo di “guerra” ma, spesso, di discriminazioni, persecuzioni su base etnica/religiosa/di genere/di orientamento sessuale, violenze, impossibilità di costruire un futuro ma anche, sembra banale, povertà.
“Aiutiamoli a casa loro”, dicono. D’accordo, facciamolo! Questo significa però, è doveroso farlo sapere, ripensare interamente l’intero sistema economico e produttivo mondiale, rinunciare ai nostri (tanti, innegabili e spesso neppure noti) privilegi, smettere di depredare e corrompere, di imporre sistemi di governo “amici”, di arricchire oligarchi e dittatori senza considerare la povertà e la deprivazione culturale della popolazione.
Significa smettere di inquinare e devastare il delta del Niger con il nostro (ENI) oleodotto, smettere di far finta di non sapere come vengano estratti i diamanti (Sierra Leone, Liberia,..) o il coltan (con bambini schiavi in Congo), smettere di sotterrare rifiuti tossici (Sahara, Mali, Somalia,..).
“Aiutarli a casa loro” significa anche invertire la rotta dei cambiamenti climatici, che -ingiustizia ulteriore- si abbattono prima e con maggiore e dirompente violenza proprio su quelle popolazioni che meno di tutte hanno contribuito alle attività clima-alteranti, diventando di fatto un enorme volano per l’aumento delle disuguaglianze e una delle principali violazioni di diritti umani di tutti i tempi.
“Aiutarli a casa loro” vuol dire abbandonare le velleità neo-colonialiste, significa ricostruire una nuova etica dei rapporti tra gli Stati, tra i popoli, abbattere le disparità e le disuguaglianze. Siamo pronti? No. E di certo chi si cela, retoricamente, dietro al (giustissimo) “diritto a non emigrare” non racconta quel che questo comporti in realtà.

Parlare di migrazioni senza cadere nei luoghi comuni è difficile. Ma dobbiamo provarci. Non è facile in nessun posto. Non è facile neppure in Europa.
L’Europa, culla del diritto e dei diritti umani, continente di oltre 500 mln di persone, ricco (pur con forti disuguaglianze), ha scelto infatti la strada della chiusura totale. Del Sarcofago. Ha ceduto alla paura e alle sirene identitarie e sovraniste. Ha ceduto all’odio. E, sbandierando una difesa delle radici (che invece, così, rinnega, svilisce e offende), sceglie l’esternalizzazione delle proprie frontiere e agisce in ogni modo (anche criminale e illegale) per respingere i migranti e per bloccarli (come nei campi di Moria o in quelli lungo la rotta balcanica).
Chiudiamo citando due articoli (il 13 e il 14) della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese” e “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”

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