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Libia, quasi 300 morti in 3 settimane. Diplomazie e Onu arrancano

Quasi 300 morti in tre settimane, il bilancio degli scontri in Libia è impietoso. Alle cifre delle vittime vanno aggiunti 1.282 feriti e 34mila sfollati. E i numeri continuano a salire di ora in ora.
Il conflitto in corso alle porte di Tripoli dal 4 aprile scorso, quando il generale Khalifa Haftar ha lanciato una dura offensiva contro la capitale libica sede del governo riconosciuto dalla comunità internazionale guidato dal premier Fayez al-Serraj, sta mettendo a dura prova la tenuta delle operazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità e delle ong impegnate nel supporto ai migranti trattenuti nei centri di detenzione. È di oggi la notizia di decine di profughi feriti colpi si armi da fuoco nel centro di Qasr Bin Gashir nella periferia di Tripoli.
Gli operatori continuano a lavorare per assicurarsi che le strutture per il primo soccorso abbiano le risorse e le forniture necessitare per garantire assistenza sanitaria e dare supporto alle famiglie in fuga. Ma la situazione sul terreno sembra del tutto fuori controllo.
A fronte del peggioramento della crisi, le diplomazie arrancano nel cercare di riportare il confronto sul piano politico.
Le Nazioni Unite, addirittura, parlano di impegno per “salvare il salvabile” come ha ammesso candidamente il rappresentante speciale del segretario generale Antonio Guterres in Libia, Ghassan Salamé, al termine della sua visita a Roma per fare un punto con il ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero Milanesi.
Salamé dall’alto della sua esperienza sa bene che quando si ‘sentono’ le armi vuol dire che la diplomazia è silente eppure nel caso del conflitto libico si dice “speranzoso” che l’azione diplomatica, seppur tra estreme difficoltà, possa proseguire.
L’inviato Onu sta tentando di riunire le parti, dopo la sospensione dell’accordo per la sicurezza nella capitale, per riprendere le trattative su cui Serraj e Haftar sembrava avessero raggiunto un punto di equilibrio ad Abu Dhabi.
L’opportunità per il rilancio degli accordi era rappresentata dalla conferenza nazionale che era prevista per il 14 aprile a Ghadames, nel profondo sud-ovest desertico del Fezzan, nella regione confinante con Algeria e Tunisia. L’attacco sferrato dal generale della Cirenaica aveva fatto saltare l’appuntamento ma il diplomatico libanese ancora lo inquadra come un ‘rinvio’, una sospensione delle trattative nell’attesa di ‘adeguarle’ alla situazione sul terreno.
Per arrivare a questo non possono però bastare “tempo, fantasia e creatività”, come va affermando Salamé.
A parte l’inaadeguatezza dell’Onu, a far salire il livello di tensione tra le parti sono le indiscrezioni (poi ammesse pubblicamente) filtrate sui media dell’appoggio espresso dal presidente americano Donald Trump all’offensiva su Tripoli durante un colloquio telefonico avvenuto dopo la visita dell’omologo egiziano, Abdel Fattah al Sisi, alla Casa Bianca.
Secondo la ricostruzione di Bloomberg, che non è stata smentita ma definita “imprecisa”, al Sisi lo scorso 9 aprile, mentre l’attacco di Haftar era già in corso, avrebbe chiesto a Trump di avallare l’azione del generale della Cirensics. Il 14 aprile, poche ore dopo il rientro a Il Cairo, il capo di Stato egiziano aveva ricevuto nel suo palazzo Haftar confermandogli il pieno appoggio nella “sua lotta al terrorismo” degli USA, come lo stesso Trump avrebbe confermato telefonicamente il giorno dopo.
I due, sempre secondo la ricostruzione di Bloomberg, avrebbero concordato “una transizione della Libia verso un sistema politico democratico e stabile”.
Trump aveva successivamente sentito al telefono anche il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed Al Nahyan, considerato il principale sponsor di Haftar, per definire la linea da assumere pubblicamente.
Da quel momento La posizione della Casa Bianca è cambiata radicalmente, sconfessando l’incaricato d’affari americano in Libia, Peter Bodde, che aveva più volte avvertito Haftar rispetto a un’avanzata su Tripoli.
In un vertice organizziato dagli Emirati Arabi lo scorso febbraio, Podde aveva fatto intendere che la capitale libica fosse per gli Usa la linea rossa che Haftar non avrebbe mai dovuto superare. Ma da allora tante cose sono cambiate. A cominciare dalla posizione espressa dal segretario di Stato, Mike Pompeo, che il 7 aprile aveva sollecitato l’immediato arresto delle operazioni militari nella capitale libica.
Così com’è cambiata in modo repentino la linea americana in Consiglio di sicurezza dell’Onu: inizialmente aveva appoggiato l’iniziativa britannica per chiedere a Haftar di cessare le ostilità, poi aveva bloccato la stessa risoluzione.
Prima ancora di Trump a manifestare appoggio a Haftar era stato Emmanuel Macron anche se ufficialmente aveva espresso neutralità chiamando Serraj che l’ho aveva avvertito di un crescente malcontento dell’opinione generale libica contro Parigi e auspicando che l’Eliseo potesse giocare ancora un ruolo positivo e importante per il bene della Libia.
Ma Macron ha preferito l’ambiguità scommettendo, pur non dichiarandolo, sull’uomo forte della Cirenaica.
Ancora più confusa, e pericolosa, la posizione italiana. Un giorno esprimiamo solidarietà e sostegno al premier al-Serraj che da una Tripoli assediata ringrazia il governo italiano “per la chiara posizione contro l’aggressione di Haftar” quello successivo il presidente del Consiglio Conte precisa che l’Italia non prende le parti di nessuno e riconosce al generale di Bengasi l’intenzione di voler contrastare il teeeorisno e riunificare il territorio libico.
Un’ambiguità pericolosa che pone gli interessi del nostro Paese a rischio quanto la nostra credibilità.
È dunque evidente che senza la compattezza dei principali attori sul campo, e un sostegno fattivo della Comunità internazionale, l’operazione ‘soluzione politica’ appare più una ‘missione impossibile’.
Intanto il caos in Libia continua e il conflitto rischia di diventare una nuova Siria, a due passi dall’Italia.

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